4.10.11

Emanuele Severino




« Si tratta di capire che la costruzione e la distruzione hanno la stessa anima... »
(E.Severino)

è un filosofo italiano.
Il padre era un militare di carriera siciliano originario di Mineo trasferitosi a Brescia, mentre la madre una bresciana di Bovegno in alta Val Trompia. Si laurea all'Università di Pavia nel 1950, come alunno dell'Almo Collegio Borromeo, discutendo una tesi su Heidegger e la metafisica sotto la supervisione di Gustavo Bontadini. L'anno successivo ottiene la libera docenza in filosofia teoretica. Dal 1954 al 1970 insegna filosofia all'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. I libri pubblicati in quegli anni entrano in forte conflitto con la dottrina ufficiale della Chiesa, suscitando vivaci discussioni all'interno dell'Università Cattolica e nella Congregazione per la dottrina della fede (l'ex Sant'Uffizio). Dopo un lungo e accurato esame (condotto da Cornelio Fabro) la Chiesa proclama ufficialmente nel 1970 l'insanabile opposizione tra il pensiero di Severino e il Cristianesimo.
Il filosofo, lasciata l'Università Cattolica, viene chiamato all'Università Ca' Foscari di Venezia dove è tra i fondatori della Facoltà di Lettere e Filosofia, nella quale hanno insegnato o insegnano alcuni dei suoi allievi (Umberto Galimberti, Carmelo Vigna, Luigi Ruggiu, Mario Ruggenini, Italo Valent, Vero Tarca, Luigi Lentini e molti altri). Dal 2001 è stato professore ordinario di filosofia teoretica, ha diretto l'Istituto di filosofia (diventato poi Dipartimento di filosofia e teoria delle scienze) fino al 1989 e ha insegnato anche Logica, Storia della filosofia moderna e contemporanea e Sociologia.
Nel 2005 l'Università Ca' Foscari di Venezia lo ha proclamato Professore emerito. Attualmente insegna presso l'Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. È accademico dei Lincei e Cavaliere di Gran Croce. Da alcuni decenni collabora con il Corriere della sera.

Pensiero

La teoria dialettica del significato

Nel libro "La struttura originaria" (1958), Severino espone la struttura della verità del Tutto mediante una riforma della dialettica hegeliana. Nonostante il dettato hegeliano esprima la verità come verità dell'intero, la dialettica del filosofo tedesco non riesce a costituirsi come costante fondamentale di ogni significato perché si pone come una teoria diveniente del significato stesso. Infatti, anche nelle dimensioni dell'essente che sono salve dal divenire temporale (tipicamente tutto il regno della "logica" e dell'"astratto", e cioè in sostanza tutto ciò che esula dalla dimensione della sensibilità), si produce un divenire "logico" in cui a concetti "passati" seguono concetti "futuri" che oltrepassano e conservano i primi. In tal modo, nel sistema hegeliano non vi è mai una dimensione realmente originaria che sia costante di ogni significato, tutto è in divenire verso la concretizzazione (innanzitutto "logica") di quel Senso che dovrebbe precedere ogni altro.

L'eternità di tutti gli essenti

Severino affronta l'antico problema radicalizzato da Platone e Aristotele e ripreso poi in epoca moderna da Heidegger: il problema dell'essere. Per Severino, tutte le filosofie costituitesi precedentemente sono caratterizzate da un errore di fondo: la fede nel senso greco del divenire. Sin dagli antichi greci, infatti, un ente (ovvero un qualcosa che è) viene considerato come proveniente dal nulla, dotato temporaneamente di esistenza e successivamente ritornante nel nulla.
Rifacendosi al pensiero di Parmenide, Severino riflette sull'opposizione assoluta tra essere e non-essere. Dato che tra i due termini non vi è nulla in comune, l'essere non può che rimanere costantemente uguale a se stesso, evitando di rimanere alterato dall'altro da sé. Anzi, essendo l'essere la totalità di ciò che esiste, non può esserci altro al di fuori di esso dotato di esistenza (Severino rifiuta, quindi, il concetto di differenza ontologica così come è stato avanzato da Heidegger). Per Severino, quindi, tutta la storia della filosofia è basata sull'errata convinzione che l'essere possa diventare un nulla.
Ma, mentre Parmenide tentava di risolvere il conflitto tra il divenire e l'immutabilità dell'essere affermando l'illusorietà del divenire (negando l’esistenza delle cose del mondo e cadendo quindi in un'aporia), Severino sceglie una via differente, portando il suo pensiero a delle tesi estreme.
Dato che l'essere è, e non può mai diventare un nulla, ogni essente è eterno. Ogni cosa, ogni pensiero , ogni attimo sono eterni. Il divenire temporale non può, quindi, che rappresentare l'apparire successivo degli eterni stati dell'essere, così come i fotogrammi di una pellicola si susseguono sino a formare lo svolgimento completo di un film. Gli enti entrano ed escono da quello che Severino chiama cerchio dell'apparire. Ciò significa che, quando un ente esce dal cerchio dell'apparire, non diviene un nulla, ma si sottrae semplicemente alla vista: dunque, le cose esistono anche quando scompaiono ovvero non si vedono ("vedere senza vedere", dice Donato Sperduto in una tragicommedia sul pensiero severiniano).

Dimostrazione dell'eternità di tutti gli essenti

La dimostrazione severiniana dell'eternità di tutti gli essenti, si basa sostanzialmente sul principio di non contraddizione, ma non nella versione che ne dà, nel Liber de Interpretatione, Aristotele. In essa anzi "il discorso del tramonto del senso dell'essere...trova la sua formulazione più rigorosa e più esplicita". Bisogna invece "ritornare a Parmenide", correggerne - con Platone - l'esito aporetico, dimostrando che l'evidenza fenomenica non è in contrasto col principio di non contraddizione, ma scoprendo anche che il divenire così come Platone lo pensa, come uscire dal nulla e ritornare nel nulla, non appare affatto, non è affatto evidente.
Di qui si potrà proseguire su una via (quella indicata da Parmenide, il "sentiero del giorno") ben diversa da quella imboccata con Platone dal pensiero occidentale.
Consideriamo la proposizione parmenidea: "...è infatti l'essere, il nulla non è" : tale proposizione esprime l'opposizione assoluta tra i termini essere e non essere; pertanto ogni essente è assolutamente opposto al nulla e non ci può essere né un tempo né uno stato in cui un ente non sia, come pensa invece il principio di non contraddizione aristotelico: "è necessario che l'essere sia, quando è, e che il non-essere non sia, quando non è". Quest'enunciato esprime il pensiero di un tempo, una condizione, in cui l'ente è nulla, in cui essere=nulla. Questa impossibile ed impensabile contraddizione costituisce la "follia essenziale" in cui cresce e sta, senza esserne consapevole, tutto il pensiero occidentale.
Infatti il pensiero occidentale pensa sì, consapevolmente, l'ente come essere, ma insieme come diveniente (pensa cioè che esca dal nulla e ritorni nel nulla). Ad esso sfugge invece che ciò equivale a pensare l'ente come nulla; e questo è il nichilismo più proprio, la follia che si annida nell'inconscio della filosofia, della scienza e della tecnica.

La differenza ontologica

Per Heidegger, l'essere non è un ente tra gli enti. Esso rappresenta piuttosto l'apparire ontologico degli enti, e per questo motivo viene definito un transcendens rispetto all'ente. Severino rigetta la concezione heiddegeriana, affermando che la totalità dell'essere è costituita dalla totalità degli enti. La vera differenza ontologica è quindi per Severino quella che si costituisce tra l'essere (l'ente) diveniente e quello immutabile.
L'essere che appare e scompare non è lo stesso essere immutabile, ma è anch'esso eterno. Entrambi esistono, ma in differenti dimensioni. L'essere come fondamento è una struttura eterna e non soggetta ad alcun mutamento.

Tutto è avvolto (momentaneamente) dal nichilismo

Un po’ tutti i filosofi che l’hanno avuto sottomano hanno inteso il nichilismo come allontanamento dalla verità, e l’hanno dunque declinato a seconda dell’idea di verità a cui stavano pensando. Nella prospettiva severiniana dell’eternità di tutte le cose, il nichilismo è dunque il credere che le cose siano mortali, ovvero che l’essere possa non essere, ed uscire e rientrare nel nulla. Se ogni essere può essere prodotto o annientato, allora questo è il principio della potenza estrema, perché è estrema la distanza da coprire tra l’essere e il nulla. Questo pensa tutta la cultura occidentale fin dai suoi esordi nella Grecia antica dei primi filosofi, e questo pensa ormai tutto il pianeta. Più esattamente, è dell’essenza della cultura occidentale che oggi tutti i popoli si nutrono, perché, ritenendo indispensabile il potenziamento della tecnologia, devono rifarsi ai concetti fondamentali di quella particolare cultura che fin dagli inizi ha più radicalmente pensato concetti come potenza, creazione, distruzione, essere, nulla, energia, verità, errore, ecc. L’Occidente non domina casualmente il mondo, o perché ha una possibilità offensiva superiore; ma, al contrario, ha una possibilità offensiva superiore perché domina il mondo che crede nelle sue stesse imprescindibili idee guida (scienza, potenza, tecnica, salvezza, ecc.) e quindi in una cultura che ritiene più avanzata – e dove dunque l’avanzamento non è una virtù morale, ma la capacità di capire e fare più cose per sopravvivere all’imprevedibilità dell’esistenza.

Nichilismo, morte e destino

Severino ritiene che la filosofia abbia sempre cercato riparo contro il terrore che scaturisce dall'imprevedibilità dell'esistenza perché innanzitutto si è sempre creduto nell'evidenza del divenire degli enti, del loro uscire dal nulla e rientrarvi. Anche le grandi forme di epistème come quelle di Aristotele ed Hegel, che tendono a dare un ordine ed una configurazione prestabiliti all'esistenza, si muovono sullo stesso terreno.
L'intera storia dell'Occidente è quindi per Severino storia del nichilismo. La radicale distruzione dell'epistème operata da parte della filosofia contemporanea e la rapida ascesa della scienza moderna ai vertici del sapere sono conseguenze inevitabili di questa forma di pensiero (la civiltà della tecnica è, infatti, la forma estrema di volontà di potenza). Secondo la logica severiniana, tutto ciò che appare appare in maniera necessaria ed il progressivo manifestarsi degli eterni non segue, quindi, una sequenza casuale. Ciò significa che la libertà dell'uomo non esiste, ma appare all'interno di quell'essente (anch'esso eterno) che è il nichilismo dell'Occidente. Ed è proprio all'interno dell'Occidente che appare il mortale come noi lo conosciamo.
Ma, per Severino, l'Occidente è destinato al tramonto, per fare spazio al Destino della verità, la verità che testimonia la follia della fede nel divenire. Solo all'interno del Destino della verità la morte acquista un significato inaudito: in realtà la morte è la persuasione dell'assentarsi dell'eterno.

Confutazione della libertà e della contingenza

L'esistenza della libertà appartiene al significato della contingenza dell'essente. Contingenza è l'unione della possibilità che l'essente accada con la possibilità che l'essente non accada, cioè il convenire di due predicati opposti allo stesso soggetto. Il problema della libertà (e della sua variante umana, il libero arbitrio) è quindi risolto nella conclusione che si tratta di un significato contraddittorio. Ma lo si può dimostrare anche tenendo conto che la possibilità non accaduta di un evento non appare quando l'evento stesso sia accaduto, e dunque non appare il continuare ad essere contingente da parte dell'evento.

Dio e il Superdio

Da quanto detto precedentemente appare chiaro come nel pensiero di Severino non ci sia posto per il Dio comunemente inteso; da qui il contrasto insanabile con la Chiesa Cattolica.
Nel corso della storia della filosofia, e nel pensiero della Chiesa cattolica in particolare, l'affermazione dell'esistenza di qualcosa di immutabile (tra cui Dio in tutti i diversi modi nei quali filosofia e religione lo hanno concepito) è sempre stata fatta partendo dal presupposto che il divenire significhi la nascita dal nulla e il tornare nel nulla delle cose che in esso si presentano. Quest'affermazione è, inoltre, sempre avvenuta con l'intento di risolvere le varie contraddizioni che quel presupposto implica e di inventare un "rimedio" per l'"angoscia" che il pensiero dell'annientamento provoca. Questo genere di immutabilità è, quindi, di segno diverso da quella che compete agli enti sulla base dell'impossibilità assoluta che qualcosa si annulli. Per questo motivo è impossibile che esista un Dio come è stato pensato dalla religione e dalla filosofia. A maggior ragione è impossibile per Severino che esista il Dio del cristianesimo, che è tradizionalmente concepito come dotato della capacità di creare gli enti dal nulla e di mantenerli in esistenza grazie alla sua libera volontà (altrettanto libera potrebbe essere, per Dio, l'annichilimento - diverso dal concetto fisico di annichilazione -, e cioè la volontà di far cessare la durata della loro esistenza per farli ritornare nel nulla).
Essendo ogni ente eterno, non può esserci né creazione né annientamento, e quindi neanche un Dio comunemente inteso. Alla luce del Destino della verità, ogni ente, anche il più insignificante, acquista un significato inaudito. L'uomo si porta quindi radicalmente al di là del superuomo e della volontà di potenza: l'uomo è un superdio, ben più grande del Dio della tradizione religiosa.L'inconciliabilità fra la dottrina dell'Essere di Severino e il Tomismo è stata sostenuta da Cornelio Fabro.

La fondazione dell'intersoggettività

Con il libro "La Gloria" (2001), Severino giunge, tra le altre cose, alla dimostrazione necessaria dell'esistenza degli "altri". Quando Cartesio infatti scopre che la carta vincente della scienza è la conferma delle ipotesi da parte dell' esperienza, e cioè da parte della presenza certa a me da parte delle cose, si apre il problema della fondazione dell'esistenza appunto di altre dimensioni che come la mia accolgono l'accadere del mondo, ma che a differenza della mia non sono da me "visibili". I fallimenti dei tentativi di soluzione a tale problema, a cominciare da quello di Cartesio, si determineranno essenzialmente per l'assenza del senso autentico dell'essente e del senso dell' "oltrepassamento".
Nella "Gloria", Severino perviene alla fondazione del senso autentico dell' oltrepassamento dopo aver stabilito nelle opere precedenti che il divenire autentico (cioè non nichilistico) non è il crearsi e l'annullarsi dell'essente, ma il comparire e lo sparire di ciò che è eterno. Ogni essente che incomincia ad apparire è destinato ad essere oltrepassato, altrimenti diventa condizione indispensabile dell'apparire degli essenti e quindi originarietà che sarebbe dovuta apparire già da sempre. Inoltre, la serie progressiva degli essenti che via via appaiono è necessariamente finita; infatti, se in direzione del passato fosse estensibile all'infinito, ci vorrebbe un percorso infinito, e quindi mai concluso, per giungere al momento attuale. C'è quindi un primo passo compiuto dalla "terra" (termine con il quale Severino designa la dimensione degli essenti che via via appaiono e che il nichilismo chiama "divenienti"). Ma anche della dimensione totale degli essenti che incominciano ad apparire si deve dire che è destinata ad essere oltrepassata, altrimenti essa pure, che è un incominciare ad apparire con quel primo passo, si porrebbe come condizione stessa dell'apparire. Il suo oltrepassamento, però, non può essere effettuato nello stesso cerchio in cui essa appare, altrimenti quell'essente deputato a oltrepassarla le apparterrebbe denunciandola contraddittoriamente come, insieme, oltrepassata e oltrepassante. Ma non può essere oltrepassata nemmeno nella Totalità infinita dell'essente, perché, essendo quest'ultima compiuta già da sempre, non potrebbe accogliere alcun altro essente. È necessario dunque che l'essente oltrepassante appartenga ad una dimensione finita e quindi ad un altro cerchio dell'apparire. Quindi l'oltrepassamento dell'attualità di un cerchio non avviene solo lungo la dimensione "verticale" del singolo cerchio, ma anche lungo quella "orizzontale" della costellazione di cerchi del destino che costituiscono il contenuto del Tutto infinito. L'oltrepassamento hegeliano, invece, conserva "idealmente", cioè astrattamente, ciò che oltrepassa, e non realmente, determinandone la distruzione. In un contesto siffatto è fondata l'impossibilità dell'esistenza degli altri, perché l'altro che è il mio oltrepassante determinerebbe il mio superamento, e mi consegnerebbe ad una dimensione puramente ideale. Infatti nel sistema hegeliano l'esistenza degli altri significa l'esistenza di soggetti empirici, sensibili, che è quindi comunque interna all'esitenza produttiva dell'unico "Io".

La Gloria

Il nichilismo è un essente che incomincia ad apparire, ed è quindi destinato ad essere oltrepassato. L'essente che oltrepassa il nichilismo è l'essente che porta al tramonto l'isolamento del senso delle cose dalla verità. Il nichilismo è, infatti, pensare e vivere le cose come nulla in quanto delle cose non appare il legame alla struttura originaria della verità, e quindi non appare l'eternità. L'essente, o la dimensione di essenti, che porta al tramonto l'isolamento del senso delle cose dalla verità è la "Gloria" (cioè la manifestazione) della verità stessa, resa ampia tanto quanto è ampio il tramonto dell'isolamento. L'ampiezza dell'isolamento non coinvolge solo il legame tra i singoli essenti e la verità, ma anche il legame tra gli infiniti cerchi dell'apparire, il loro passato e il futuro del percorso che la terra è destinata a compiere in essi. Nella Gloria non si è Dio, perché Dio crea ed annienta le cose anche e soprattutto quando ama; e dunque appartiene al regno dell’errore perché l'amore è volontà e la volontà è voler alterare il senso proprio ed eterno, cancellarne l'identità. Dio è, quindi, infinitamente meno della più umbratile tra le cose vere. Tutto è oltre Dio - e oltre ogni forma di mortalità, compresa la vita umana come credenza nel poter creare e annientare gli essenti.

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