24.1.11

Giorgio Gaber



Nasce a Milano in via Londonio 28 da una famiglia piccolo-borghese; i genitori (madre veneta e padre istriano della provincia di Trieste ) si sono conosciuti e sposati in Veneto. Successivamente si sono trasferiti in Lombardia in cerca di fortuna.
Il padre Guido fa l'impiegato, la madre è casalinga; il fratello Marcello, più grande di sette anni, compie gli studi di geometra e suona la chitarra. Lo stato di salute di Giorgio è cagionevole: durante l'infanzia si ammala più volte. Un brutto infortunio al braccio sinistro (che gli procura una lieve paralisi alla mano, occorsogli verso gli otto-nove anni, gli impone un'attività costante ai fini della rieducazione motoria: considerato che il fratello maggiore suona la chitarra, anche Giorgio impara a suonarla. L'idea dà buoni risultati, sia sotto il profilo medico che sotto quello artistico. Da adulto, Gaber dirà: “Tutta la mia carriera nasce da questa malattia”



23.1.11

Francesco Barilli




Appartenente a una famiglia di artisti (è nipote del pittore Cecrope Barilli) a vent'anni, nel 1963, ha cominciato a collaborare con il regista Antonio Pietrangeli che ha girato a Parma il film La parmigiana, nel quale ebbe anche una piccola parte da attore.
L'anno seguente Bernardo Bertolucci l'ha scelto come interprete principale del suo primo film, Prima della rivoluzione. Nel 1968 ha fatto l'aiuto regista di due film di Camillo Bazzoni, Vivo per la tua morte e Commando suicida. Nello stesso anno ha debuttato nella regia, con il suo primo cortometraggio, Nardino sul Po.
Ha firmato regie di film e documentari (anche spot pubblicitari di qualità), ha preso parte come attore ad alcuni film, ha scritto sceneggiature. Dal 1994 al 1996 ha diretto sei documentari naturalistici per Geo & Geo, la trasmissione di Raitre.

Come regista:
Il profumo della signora in nero (1974), con Mimsy Farmer, Mario Scaccia, Orazio Orlando
Pensione paura (1978), con Luc Merenda, Leonora Fani, Francisco Rabal
La domenica specialmente (1991) (episodio: Le chiese di legno)
Giorni da Leone (2002, Raiuno, 2 puntate) con Luca Barbareschi, Laura Marinoni, Lorenzo Balducci.
Giorni da Leone 2 (2006, Raiuno, 2 puntate) con Luca Barbareschi, Lucrezia Lante della Rovere

Documentari
Casa Barilli (1997)
Erberto Carboni (1998)
Giuseppe Verdi (2000)

Cortometraggi
Nardino sul Po (1968)
Cinecittà 50 (1987)
Il tavoliere, la Puglia dei Dauni (1994) (per Geo & Geo, Raitre )
Le paludi di Ravenna (1995) (per Geo & Geo, Raitre )
Comacchio, il paese delle acque (1995) (per Geo & Geo, Raitre )
Grado e Marano, il Friuli delle lagune (1996) (per Geo & Geo, Raitre )
Il Salento, paradiso di pietra e di mare (1996) (per Geo & Geo Raitre )
Lecce e la terra degli olivi (1996) (per Geo & Geo, Raitre)
Palazzo reale e il Bertoja a Parma (2005)
Come sceneggiatore: Chi l'ha vista morire? (1972), di Aldo Lado
Il paese del sesso selvaggio (1972), di Umberto Lenzi
Il profumo della signora in nero (1974)
Pensione paura (1978)
La gabbia (1985), di Giuseppe Patroni Griffi

Pittore: fin dal 1963 Barilli ha alternato la carriera di attore e regista con la pittura, uno dei suoi più grandi interessi. Ha presentato le sue opere in numerose mostre in tutta Italia. Tra queste:
Cinematografo, 1994
Animalia, 1995
Acqua, 1996
Antologica (Parma, 2004)

Luciano Re Cecconi


Re Cecconi era figlio di un muratore, e cominciò in gioventù a lavorare come carrozziere assieme al cugino, giocando a calcio come hobby.
Muove i primi passi sul campo polveroso dell'oratorio di Sant'Ilario Milanese (Nerviano). Da agonista comincia a giocare a calcio nell'Aurora Cantalupo, passando poi alle giovanili della Pro Patria, con cui il 14 aprile 1968, esordisce in Serie C (Pro Patria-Messina 1-1). I capelli biondi gli valsero anche il soprannome di Cecconetzer, un gioco di parole sul nome del calciatore tedesco Günter Netzer, con cui c'era una spiccata somiglianza fisica.
L'anno dopo l'allenatore Carlo Regalia lo inserisce nella rosa dei titolari e coi lombardi disputa una stagione da leader, guidando il centrocampo e collezionando 33 presenze.
Il calcio che conta l'ha già notato: l'allenatore del Foggia Tommaso Maestrelli chiede e ottiene il giovane centrocampista, facendolo esordire all'11ª giornata del Campionato di Serie B 1969-70 contro il Perugia (gara vinta dai pugliesi per 2-0). La stagione è brillante e Luciano colleziona 14 presenze e 1 goal, ma soprattutto il Foggia conquista la promozione in Serie A. La stagione 1970-71 non è però delle migliori e il Foggia torna subito in Serie B.
Per il campionato cadetto 1971-72 giunge sulla panchina foggiana Ettore Puricelli, che assegna a Re Cecconi il ruolo di regista di centrocampo. Luciano gioca un ottimo campionato, al termine del quale Maestrelli, divenuto allenatore della Lazio, lo porta a Roma.
È il salto di qualità che Luciano attendeva. Con 29 presenze e 1 goal si proietta tra i protagonisti del campionato 1972-73 che vede la Lazio giungere terza, ad appena 2 punti dalla Juventus campione d'Italia.
Inoltre il ct Ferruccio Valcareggi convoca Re Cecconi nella Nazionale under 23, con cui esordisce il 14 gennaio 1973 ad Ankara (Turchia-Italia 1-3).
L'apoteosi giunge l'anno seguente, quando il team di Maestrelli conquista il primo scudetto della sua storia. Re Cecconi, rimasto assente per 7 giornate verso metà campionato a causa di un infortunio, si erge comunque a protagonista, collezionando 2 goal in 23 presenze.
A fine campionato viene convocato da Valcareggi per l'avventura italiana ai Mondiali di calcio Germania Ovest 1974. L'esperienza è però amara, sia perché la Nazionale non supera il primo turno, sia perché Re Cecconi non mette piede in campo.
Le presenze in Nazionale maggiore giungeranno comunque nello stesso anno: il nuovo ct Fulvio Bernardini lo convoca per l'amichevole contro la Jugoslavia il 28 settembre a Zagabria (persa dagli azzurri per 1-0), dove Re Cecconi gioca tutta la partita, e successivamente per la gara in programma il 29 dicembre a Genova contro la Bulgaria (finita 0-0), nella quale entra nel secondo tempo al posto di Causio.
Nella stagione seguente la Lazio non può prendere parte alla Coppa dei Campioni: a causa di una rissa scoppiata negli spogliatoi dell'Olimpico, dopo il ritorno dei sedicesimi di finale della Coppa UEFA dell'anno precedente contro l'Ipswich Town, il club biancoceleste subisce dall'UEFA la squalifica per 3 anni (poi ridotti a 1) dalle competizioni europee. Il campionato non è inoltre all'altezza delle aspettative e la Lazio non riesce a difendere il tricolore.
Il campionato 1975-76 è più difficile e la Lazio, anche a causa dell'addio forzato di mister Maestrelli e alle cessioni di molti dei pezzi pregiati (primo fra tutti Chinaglia), rischia addirittura la retrocessione, ma grazie al miracoloso ritorno, seppur temporaneo, di Tommaso Maestrelli (morirà il 2 dicembre '76 per un tumore al fegato), si salva per un soffio a fine stagione grazie ad una partita maestosa di Re Cecconi e ad una differenza reti migliore rispetto all'Ascoli. Re Cecconi gioca 25 partite, segnando 1 goal, e la Lazio si affida a lui e a Bruno Giordano in vista della stagione successiva.
Per il campionato 1976-77 giunge sulla panchina laziale Luis Vinicio. La Lazio debutta contro la Juventus (finita 2-3 per i bianconeri) all'Olimpico e Re Cecconi delizia i tifosi biancocelesti con un goal capolavoro, che sarà anche l'ultimo della sua carriera. Alla terza di campionato contro il Bologna, Re Cecconi subisce al 19' un grave infortunio al ginocchio sinistro dopo un intervento del bolognese Tazio Roversi, che lo costringe ad uno stop di parecchi mesi.
La sera del 18 gennaio 1977 Re Cecconi si trovava con due amici, il compagno di squadra Pietro Ghedin e il profumiere romano Giorgio Fraticcioli, accompagnando quest'ultimo nella gioielleria di Bruno Tabocchini, situata nella tranquilla e decentrata zona della Collina Fleming della capitale, per ritirare alcuni prodotti.
Quando i tre entrarono nel negozio, Re Cecconi s'inventò lo scherzo di fingersi malvivente e, con il bavero alzato e la mano destra nella tasca del cappotto a mimare la minaccia di una pistola, esclamò «Datemi tutto, questa è una rapina!». Il calciatore, però, ha scelto l'uomo, il posto e il momento sbagliati: Tabocchini non era un appassionato di calcio, aveva subìto due rapine recenti ed il timore che la cosa potesse ripetersi lo aveva spinto a nascondere sotto la cassa una Walther calibro 7.65, già usata per difendersi da un rapinatore. Il gioielliere non aveva riconosciuto i calciatori una volta dentro il negozio, aveva la pistola con sé e stava voltato di spalle quando Re Cecconi gridò la falsa intimazione. Il giocatore fu colpito in pieno petto e morì mezz'ora dopo.
Tabocchini fu poi arrestato e accusato di "eccesso colposo di legittima difesa"; processato 18 giorni dopo, venne assolto per "aver sparato per legittima difesa putativa".

Morendo a soli 28 anni, Re Cecconi lasciava la moglie Cesarina e i due figli Stefano e Francesca. Le sue spoglie furono tumulate nel cimitero della natia Nerviano. Poco dopo la morte fu creata da Agostino D'Angelo, dirigente laziale e suo grande amico, la Fondazione Luciano Re Cecconi - Contro la violenza.
Nel novembre 2003, il Comune di Roma gli dedicò una strada nel quartiere Tuscolano.
I mezzi di informazione, all'epoca del fatto, criticarono la diffusa passione per le armi all'interno della formazione laziale, nonché i precedenti di finte rapine ai danni di commercianti i quali per fortuna, avevano riconosciuto tempestivamente gli autori.

Agostino Di Bartolomei


« Ricordati di me mio capitano, /cancella la pistola dalla mano.../ se ci fosse più amore per il campione oggi saresti qui »
(Antonello Venditti, Tradimento e perdono)

Cresce calcisticamente vicino al suo quartiere Tor Marancia all'OMI, sino alle giovanili della Roma.

Con i giovani vince il titolo ed il passaggio in prima squadra avviene nella stagione 1972-1973. L'esordio avviene il 22 aprile, pochi giorni dopo il suo diciassettesimo compleanno, contro l'Inter a Milano (0-0): il suo primo tecnico sarà Manlio Scopigno.
Nella stagione 1973-1974, alla prima giornata contro il Bologna (2-1), arriva il primo gol con la maglia giallorossa, valido per la vittoria. Nelle prime tre stagioni con i grandi colleziona 23 presenze, poi passa un anno a Vicenza per maturare definitivamente. Al ritorno diventa un punto fermo dei giallorossi. Dal 1976-1977 al 1983-1984 salta pochissime gare e a fine anni settanta diventa il capitano della Roma. Il campionato 1977-1978 è per lui il più prolifico: 10 reti; l'anno dello scudetto invece realizza 7 reti.
L'allenatore Nils Liedholm lo posizionava davanti alla difesa. In totale giocò con la Roma 308 gare (146 da capitano) segnando 66 gol. In undici stagioni giallorosse conquistò anche tre Coppe Italia.
Nella sua avventura romana ha ricevuto un'espulsione, nella stagione 1978-1979, contro la Juventus (gli venne sventolato il cartellino rosso insieme a Pietro Paolo Virdis), partita in cui segna anche la rete della vittoria.
Nel 1984, con l'arrivo di Sven Goran Eriksson sulla panchina, venne venduto. Giocò la sua ultima partita in maglia giallorossa nella finale di Coppa Italia vinta contro il Verona. I tifosi gli dedicarono uno striscione: "Ti hanno tolto la Roma ma non la tua curva".

Militò successivamente nelle file del Milan, e durante questo periodo, nel 1985, nella partita contro la Roma fu colpito da Francesco Graziani, con la partita che si trasformò in una rissa

Con il Milan disputa tre stagioni segnando, tra l'altro, un gol in un derby.
Nel 1987 il Milan entrò nell'era Sacchi, e Di Bartolomei fu ceduto al Cesena; concluse la sua carriera nel 1990, nelle file della Salernitana, dove contribuì al raggiungimento della promozione in Serie B dopo 23 anni di assenza.
La prima convocazione nella Nazionale Under-21 arrivò nel 1973 (Di Bartolomei aveva 18 anni) ma non scese in campo. Dal 1976 al 1978 ebbe 7 convocazione e altrettante presenze in Under-21.
Dpo il ritiro fu anche opinionista per la RAI durante i Mondiali di calcio nel 1990.

Morì suicida il 30 maggio 1994 a San Marco (frazione di Castellabate), un paesino della costa cilentana dove viveva. Dopo aver pulito con cura la sua pistola Smith & Wesson calibro 38, si sparò dritto al cuore alle 8:50 del mattino, sul balcone della sua villa. Erano trascorsi dieci anni esatti dalla finale di Coppa dei Campioni persa dalla Roma contro il Liverpool.
I motivi del suicidio inizialmente ignoti - si parlò di alcuni investimenti andati male - divennero chiari quando venne trovato un biglietto strappato in cui il calciatore spiegava i motivi del gesto: non la presunta crisi economica - si disse che gli era appena stato rifiutato un prestito - bensì le porte chiuse che il calcio serrava di fronte a lui: "mi sento chiuso in un buco", scrisse.

La vicenda umana e calcistica di Agostino Di Bartolomei è raccontata nel libro "L'ultima partita" di Giovanni Bianconi e Andrea Salerno.

Nel 2007 il cantautore romano Antonello Venditti, tifoso romanista, ma soprattutto amico di Agostino, gli dedica la canzone Tradimento e perdono (contenuta nell'album Dalla pelle al cuore). In un'intervista Venditti disse: L’ho scritta il 30 maggio, anniversario della morte di Di Bartolomei, e del giorno in cui la Roma perse nell’84 la Coppa dei Campioni. Può avere valore anche per me, è una canzone preventiva; io penso che uno che ha successo, abbia diritto a più amore che non una persona normale: a volte, quando finisce la tua importanza, una parola può bastare.

Nel 2010 il figlio Luca scrive una lettera al padre nella prefazione del libro "L'ultima partita - Vittoria e sconfitta di Agostino Di Bartolomei" di Giovanni Bianconi e Andrea Salerno (Ed. Fandangolibri)

Diabolik




Diabolik è un personaggio dei fumetti creato da Angela e Luciana Giussani nel 1962, pubblicato dalla Astorina.
Diabolik nacque da un'idea di Angela Giussani, che osservando tutti i giorni i pendolari che transitavano per la Stazione di Milano Cadorna (vicino alla quale viveva) ebbe l'intuizione di realizzare un fumetto con un formato "tascabile", cioè che si potesse facilmente leggere aspettando il treno e poi in viaggio, per riporlo infine comodamente "in tasca". Per capire i gusti dei suoi potenziali clienti, Angela condusse un'indagine di mercato da cui scaturì che molti in viaggio leggevano romanzi gialli (secondo un'altra versione, l'intuizione le venne per caso dopo aver trovato su un treno un romanzo di Fantomas). Nasce così il "formato Diabolik" (12 x 17 cm), poi ripreso da molte altre pubblicazioni del genere, formato che contribuirà al successo nel tempo di questo personaggio dei fumetti.

Angela Giussani e Luciana Giussani sono le ideatrici del famoso personaggio dei fumetti Diabolik - il primo fumetto nero italiano formato tascabile - a cui hanno dedicato tutta la loro vita professionale.
Angela nasce a Milano il 10 giugno 1922; dopo aver fatto per un certo periodo la modella, sposa nel 1946 l'editore Gino Sansoni e lavora nella casa editrice del marito occupandosi di una collana che pubblica libri per ragazzi. Fonda poi una casa editrice tutta sua che chiama Astorina; dopo il fallimento del primo tentativo - la pubblicazione di un fumetto con le avventure di un pugile, Big Ben Bolt - durato solo due anni, ci riprova con un nuovo personaggio nato dal suo incontro casuale con la copia di un romanzo di Fantomas.
Il 1º novembre 1962 viene pubblicato il primo numero di Diabolik con il "plot" scritto dalla stessa Angela. Sarà l'inizio di una lunga serie di sequestri e poi di successi.
Dopo tredici numeri del nuovo fumetto, Angela chiama a lavorare con sé la sorella Luciana, diplomata da poco ad una scuola tedesca; insieme iniziano ad occuparsi della casa editrice e a scrivere a quattro mani le avventure rocambolesche del "Re del terrore".
Angela muore nel 1987 mentre Luciana continua a gestire da sola la casa editrice; nel 1992 però passa la mano nella conduzione di Diabolik, lasciando infine, nel 1999, anche la casa editrice; muore nel 2001.

22.1.11

Orzowei



« Forse è un Swazi, o un bianco, o uno del piccolo popolo. È tutti e tre, o forse nessuno dei tre. Eppure io ho visto: boscimani, negri, bianchi sono stati capaci di amarlo e di sacrificarsi per lui quando lo hanno conosciuto. Ed egli ha amato tutti. Ecco: quando ci conosciamo, anche se la nostra pelle è di un altro colore, ci amiamo. »
Orzowei

Orzowei è il titolo di un romanzo di Alberto Manzi pubblicato nel 1955 e da cui hanno avuto origine una popolare serie di telefilm e un film.

Isa, un bambino bianco abbandonato nella foresta del Sud Africa, viene trovato ed allevato come un figlio da un vecchio grande guerriero e da una vecchia nutrice, ambedue appartenenti ad una tribù di Bantu di etnia Swazi. A causa della sua pelle chiara, Isa non riesce a farsi accettare del tutto dai membri del villaggio, che per schernirlo lo chiamano Orzowei, il "trovato". Particolarmente ostile è Mesei, il figlio del capo del villaggio. A causa del pregiudizio razziale, Isa non viene accolto fra gli adulti guerrieri della tribù pur avendo superato la drammatica prova dell'iniziazione. Decide quindi di allontanarsi dal villaggio e si rifugia nella foresta, dove viene accolto da una tribù di Boscimani e nuovamente adottato come un figlio dal saggio Pao. Pao stesso però, inviterà Isa a conoscere i bianchi, insegnandogli ad amarli e a capirli. Verrà a contatto con una comunità di Boeri, i quali lo tratteranno peggio di quanto abbiano fatto i neri fino a quel momento - dai bianchi prenderà anche delle frustate. Poco più che tollerato, tornerà tra i neri Suo malgrado, Orzowei si troverà a lottare contro gli Swazi che lo hanno allevato per primi, e a porre fine al conflitto sconfiggendo proprio il suo nemico di sempre, Mesei.
La serie televisiva, co-produzione italo-tedesca (per l'Italia Oniro Film di Gioacchino Sofia), fu trasmessa sulla prima rete RAI, alle 19:20, a partire dal 28 aprile 1977. Protagonista nel ruolo di Orzowei era Peter Marshall. Il telefilm è ricordato anche per la sigla cantata dagli Oliver Onions. Il Capo dei Boeri era interprerato da Stanley Baker che, quando "Orzowei" fu tasmesso in Italia, era già deceduto da tempo.

21.1.11

Anna Maria Guarnieri



Teatro, unico amore
di Paola La Sala

Viveur incontra Annamaria Guarnieri, primadonna a teatro, protagonista oggi come ieri della scena italiana fra rigore e passione. “Sono Annamaria Guarnieri. Ho un gran passato, un ottimo presente e spero un invidiabile futuro”. Così scrive nel suo sito internet una grande signora della scena italiana, protagonista assoluta a teatro, di cui calca i palcoscenici da quasi sessant´anni con l'entusiasmo degli esordi. Dopo aver lavorato con i più grandi, un passato televisivo che le ha regalato la popolarità e una vita al servizio del suo grande amore, il teatro, oggi Annamaria Guarnieri porta sulle scene Antonio e Cleopatra alla corse, di Roberto Cavosi in cui da anima e corpo a una donna immersa nell'eterno conflitto con l'altro sesso. Raggiungiamo l'attrice durante le prove del suo spettacolo e ripercorriamo con lei le tappe di una carriera straordinaria.

La sua carriera prende le mosse dalla Scuola dei Filodrammatici e da quella del Piccolo Teatro di Milano diretta da Paolo Grassi, da cui fu espulsa per indisciplina. Come andarono le cose?

Era proibito lavorare durante gli studi, ma era morto mio padre e mi avevano proposto di fare una lettura per la televisione; decisi di interrompere e mi fecero una cosa un tantino sporca, perché avevo deciso di lasciare la scuola per guadagnare un po', e sono stata sospesa per “illeciti contatti col mondo del lavoro”. Grassi fu fiscale, ma dopo siamo diventati amici: era un uomo molto intelligente, simpatico.

Il suo debutto risale al 1953: aveva 19 anni. Che cosa ha significato per lei il successo a quell´età?

All'inizio, devo confessare di aver avuto una serie di colpi di fortuna: ho avuto tutto subito. Ma non mi ha fatto male, non mi sono adagiata per niente anche perché, come seconda esperienza dopo il debutto, sono cascata nelle zampe di Giorgio De Lullo che mi ha messo in riga; la mia vera scuola di teatro è stata quella, la Compagnia dei Giovani, con il rigore di De Lullo, che ci ha fatti molto soffrire tutti, però mi ha fatto crescere con la schiena bella diritta.

Lei è rimasta diversi anni con la Compagnia dei Giovani di De Lullo e ha lavorato con attori del calibro di Romolo Valli, Rossella Falk, Ferruccio De Ceresa e molti altri: un'esperienza straordinaria.

Sì, otto anni con la Compagnia dei Giovani, anni molto belli, anni di vita, oltre che di lavoro: teatro insieme, vacanze insieme, nottate insieme. Eravamo veramente giovani e questo era un Paese magnifico, completamente diverso, c'era gran voglia di fare, tutti erano belli, bravi e intelligenti! Non solo noi attori: l'Italia era bella, brava e intelligente.

In seguito ha lavorato con altri grandissimi registi come Zeffirelli, Missiroli, Ronconi, interpretando moltissimi personaggi. A quale si sente più legata?

Alla signorina Giulia di Strindberg, che rappresenta la parte nera del mio carattere, la parte buia.

È stata anche protagonista di una straordinaria stagione televisiva negli anni Sessanta: in tanti la ricordano protagonista di storici sceneggiati popolarissimi, come “La cittadella”, “E le stelle stanno a guardare”, “David Copperfield”.

Sì, ed erano fatti molto bene, anche se rivedendomi spesso mi trovo insopportabile, troppo buona, con una vocetta... Insomma, trovo parecchio da ridire su me stessa di allora! Quegli sceneggiati, fatti in presa diretta, fanno parte di un'altra televisione. Cosa aveva di diverso da quella di oggi? Tutto. Nel campo delle fiction oggi è tutto più arrangiato, ci sono molti attori improvvisati; e poi la fiction televisiva, è una sorta di cinema a metà: a volte piacevole, a volte no. Sa cosa manca? L'adrenalina. Noi andavamo in diretta e l'adrenalina da una marcia in più. È molto divertente fare televisione, perché puoi barare. Ti abbandoni meno rispetto al teatro, fai più la furba, però resta il fatto che sei in diretta e quindi sono cavoli amari!

Alla televisione deve la grande popolarità. Come si è trovata in quegli anni, in cui la gente la fermava per strada?

Non mi sono mai esaltata nell'essere riconosciuta, non che mi dispiacesse, ma neanche mi esaltava. Era normale, non me ne rendevo nemmeno conto, non capivo di essere popolare.

Che cosa può dirci dello spettacolo che sta portando in scena in questo periodo?

È uno spaccato di storie di ordinaria follia matrimoniale. Una storia di amore, odio, sofferenza, di due maturi coniugi che vivono, si inseguono e si lacerano, si vogliono bene, si detestano: vivono. Ed è molto interessante il linguaggio di Roberto Cavosi; è comico, grottesco, patetico, molto asciutto, moderno, parlato, ha un bel ritmo, una bella sfacciataggine. Questo spettacolo ha una vena strindbergiana. Nella pièce c'è dell'acido, del nero, del fumo. I motivi di polemica fra i due protagonisti, coniugi di mezza età, sono le corse dei cavalli: lui ha il pollice verde per i vincitori, lei è ricca ma non gli da i soldi; lui punta sui brocchi, ma non vince mai. Insomma, la discussione verte su questo, che è il soprattesto della condizione di gelosia, di disagio, di fatica del vivere insieme. Il pretesto sono le discussioni sulle corse che, naturalmente, nascondono tutt'altro: quella naturale, sotterranea polemica tra uomo e donna.

Fra le sue giovani colleghe, quale merita la sua stima?

Ce ne sono tante, ma la mia preferita è Galatea Ranzi, perché ha cuore, ha la lucina dentro.

Lei ha vissuto anche una breve parentesi cinematografica.

Brevissima, perché non avevo tempo e non mi è mai piaciuto. E poi ero una fanciulla in fiore, ma non avevo il lato B, avevo solo il lato A: avevo la faccia, ma non è stato sufficiente! Ma non lo rimpiango per niente, anche perché ora si fanno film su figure femminili interessanti, allora no. Basti pensare ai personaggi interpretati da Giovanna Mezzogiorno, Margherita Buy, Stefania Rocca. Ecco, lei sì che mi piace moltissimo, con i suoi occhi alla Simone Signoret. www.annamariaguarnieri.it

inserito il 20.1.2011 Teatro