È lo stesso Bruno, negli interrogatori cui fu sottoposto durante il tragico processo che segnò gli ultimi anni della sua vita, a dare le informazioni sui suoi primi anni. «[...] Io ho nome Giordano della famiglia di Bruni, della città de Nola vicina a Napoli dodeci miglia, nato et allevato in quella città [...]», e più precisamente nella contrada di San Giovanni del Cesco, ai piedi del monte Cicala, forse unico figlio del militare, l'alfiere Giovanni, e di Fraulissa Savolina, nell'anno 1548 - «per quanto ho inteso dalli miei» - e fu battezzato col nome di Filippo, in onore dell'erede al trono di Spagna Filippo II.
La sua casa - che non esiste più - era modesta, ma nel suo De immenso ricorda con commossa simpatia l'ambiente che la circondava, l'«amenissimo monte Cicala», le rovine del castello del XII secolo, gli ulivi - forse in parte gli stessi di oggi - e di fronte al Vesuvio che egli, pensando che oltre quella montagna non vi fosse più nulla nel mondo, esplorò ragazzetto: ne trarrà l'insegnamento di non basarsi «esclusivamente sul giudizio dei sensi»,come faceva, a suo dire, il grande Aristotele, imparando soprattutto che, aldilà di ogni apparente limite, vi è sempre qualche cosa di altro.
Imparò a leggere e a scrivere da un prete nolano, Giandomenico de Iannello e fece gli studi di grammatica nella scuola di un tale Bartolo di Aloia. Proseguì gli studi superiori, dal 1562 al 1565, nell'Università di Napoli, che era allora nel cortile del convento di San Domenico, per apprendere lettere, logica e dialettica da «uno che si chiamava il Sarnese» e lezioni private di logica da un agostiniano, fra Teofilo da Vairano.
Il Sarnese, ossia Giovan Vincenzo de Colle, nato a Sarno, era un aristotelico di scuola averroista e a lui si fa risalire la formazione antiumanistica e antifilologica del Bruno, per il quale solo i concetti contano, nessuna importanza avendo la forma e la lingua nella quale sono espressi. Nel De la causa, Bruno scrive infatti che quantunque Averroè fosse arabo e perciò «ignorante di lingua greca, nella dottrina peripatetica però intese più che qualsivoglia greco che abbiamo letto; e arebbe più inteso, se non fusse stato così additto al suo nume Aristotele».
Scarse le notizie sull'agostiniano Teofilo da Vairano, del quale Bruno ebbe sempre ammirazione, tanto da farlo protagonista dei suoi dialoghi cosmologici e da confidare al bibliotecario parigino Guillaume Cotin che Teofilo fu «il principale maestro che abbia avuto in filosofia». Per delineare la prima formazione del Bruno, basta aggiungere che, introducendo la spiegazione del nono sigillo nella sua Explicatio triginta sigillorum del 1583, scrive di essersi dedicato fin da giovanissimo allo studio dell'arte della memoria, influenzato probabilmente dalla lettura del trattato Phoenix seu artificiosa memoria, del 1492, di Pietro Tommai, chiamato anche Pietro Ravennate.
In convento
A «14 anni o 15 incirca», rinuncia al nome di Filippo come imposto dalla regola monastica, e assume il nome di Giordano, forse in onore del frate Giordano Crispo, suo insegnante di metafisica, prende quindi l'abito di frate domenicano dal priore del convento di San Domenico Maggiore a Napoli, Ambrogio Pasca: «finito l'anno della probatione, fui admesso da lui stesso alla professione», in realtà fu novizio il 15 giugno 1565 e professo il 16 giugno 1566, a diciotto anni. Valutando retrospettivamente, la scelta di indossare l'abito domenicano può spiegarsi non già per un interesse alla vita religiosa o agli studi teologici - che mai ebbe, come affermò anche al processo - ma per potersi dedicare ai suoi studi prediletti di filosofia con il vantaggio di godere della condizione di privilegiata sicurezza che l'appartenenza a quell'Ordine potente certamente gli garantiva.
Che egli non fosse entrato fra i domenicani per tutelare l’ortodossia della fede cattolica lo rivelò subito l’episodio – narrato dallo stesso Bruno al processo – nel quale fra’ Giordano, nel convento di San Domenico, buttò via le immagini dei santi in suo possesso, conservando solo il crocefisso e invitando un novizio che leggeva la Historia delle sette allegrezze della Madonna a gettar via quel libro, una modesta operetta devozionale, pubblicata a Firenze nel 1551, perifrasi di versi in latino di Bernardo di Chiaravalle, sostituendolo magari con lo studio della Vita de’ santi Padri di Domenico Cavalca. Episodio che, pur conosciuto dai superiori, non provocò sanzioni nei suoi confronti, ma che dimostra come il giovane Bruno fosse del tutto estraneo alle tematiche devozionali controriformistiche.
Sembra che intorno al 1569 sia andato a Roma e sia stato presentato a papa Pio V e al cardinale Scipione Rebiba, al quale avrebbe insegnato qualche elemento di quell'arte mnemonica che tanta parte avrà nella sua speculazione filosofica. Nel 1570 fu ordinato suddiacono, diacono nel 1571, studente di teologia nel 1572 e sacerdote nel 1573, celebrando la sua prima messa nel convento di San Bartolomeo a Campagna, presso Salerno, a quell'epoca appartenente ai Grimaldi principi di Monaco, e nel 1575 si laureò in teologia con due tesi su Tommaso d'Aquino e su Pietro Lombardo.
Non bisogna pensare che un convento fosse esclusivamente un'oasi di pace e di meditazione di spiriti eletti: soltanto dal 1567 al 1570, nei confronti dei frati di San Domenico Maggiore furono emesse diciotto sentenze di condanna per scandali sessuali, furti e perfino omicidi: non deve pertanto stupire il disprezzo che Bruno ostentò sempre nei confronti dei frati, ai quali rimproverò in particolare la mancanza di cultura; e non solo: egli fece protagonista della sua commedia Candelaio proprio un suo confratello, un fra Bonifacio da Napoli, candelaio, ossia sodomita. Tuttavia, la possibilità di formarsi un'ampia cultura non mancava certo nel convento di san Domenico Maggiore, famoso per la ricchezza della sua biblioteca ma dove, come negli altri conventi, erano vietati i libri di Erasmo da Rotterdam che però Bruno si procurò in parte, leggendoli di nascosto. L'esperienza conventuale di Bruno fu in ogni caso decisiva: vi poté fare i suoi studi, formare la sua cultura leggendo di tutto: di Aristotele e di Tommaso d'Aquino, di san Gerolamo e di san Giovanni Crisostomo, di Marsilio Ficino, di Raimondo Lullo e di Nicola Cusano.
Nel 1576 la sua indipendenza di pensiero e la sua insofferenza verso l'osservanza dei dogmi si manifestò inequivocabilmente: Bruno, discutendo di arianesimo con un frate domenicano, Agostino da Montalcino, ospite nel convento napoletano, sostenne che le opinioni di Ario erano meno perniciose di quel che si riteneva, dichiarando che «[...] Ario diceva che il Verbo non era creatore né creatura, ma medio intra il creatore et la creatura, come il verbo è mezzo intra il dicente et il detto, et però essere detto primogenito avanti tutte le creature, non dal quale ma per il quale è stato creato ogni cosa, non al quale ma per il quale si refferisce et ritorna ogni cosa all'ultimo fine, che è il Padre, essagerandomi sopra questo. Per il che fui tolto in suspetto et processato, tra le altre cose, forsi di questo ancora [...]». Così riferì nel 1592 all'inquisitore veneziano dei suoi dubbi sulla Trinità, ammettendo di aver «dubitato circa il nome di persona del figliolo e del Spirito Santo, non intendendo queste due persone distinte dal Padre» ma considerando, neoplatonicamente, il Figlio l'intelletto e lo Spirito, pitagoricamente, l'amore del Padre o l'anima del mondo, non dunque persone o sostanze distinte, ma manifestazioni divine.
La fuga da Napoli
Denunciato da fra Agostino al padre provinciale Domenico Vita, questi «fece processo contro di me sopra alcuni articuli, ch'io non so realmente sopra quali articuli, né di che in particular; se non che me fu detto che si faceva processo contra di me di eresia [...] per il che, dubitando di non esser messo in preggione, mi partii da Napoli ed andai a Roma». Bruno raggiunse Roma nel 1576, ospite del convento domenicano di Santa Maria sopra Minerva, il cui procuratore, Sisto Fabri da Lucca, diverrà pochi anni dopo generale dell'Ordine e nel 1581 censurò i Saggi di Montaigne.
Sono anni di gravi disordini: a Roma sembra non farsi altro, scriveva il cronista marchigiano Gualtiero Gualtieri, che «rubare e ammazzare: molti gittati in Tevere, né di popolo solamente, ma i monsignori, i figli di magnati, messi al tormento del fuoco, e nipoti di cardinali erano levati dal mondo [...] i frati [...] lasciate le chiese e i conventi, correvano a questa vita esecranda» e ne incolpava il vecchio e debole papa Gregorio XIII.
Anche Bruno è accusato di aver ammazzato e gettato nel fiume un frate: scrive il bibliotecario Guillaume Cotin, il 7 dicembre 1585, che Bruno fuggì da Roma per «un omicidio commesso da un suo frère, per il quale egli è incolpato e in pericolo di vita, sia per le calunnie dei suoi inquisitori che, ignoranti come sono, non concepiscono la sua filosofia e lo accusano di eresia». Oltre all'accusa di omicidio, Bruno ebbe infatti notizia che nel convento napoletano avevano trovato suoi libri di opere di san Giovanni Crisostomo e di san Gerolamo annotati da Erasmo e che si stava istruendo contro di lui un processo d'eresia.
Le peregrinazioni
Abbandona allora l'abito domenicano, riassume il nome di Filippo e fugge in Liguria, raggiungendo nell'aprile 1576 Genova: scrive che allora, nella chiesa di Santa Maria di Castello, si adorava come reliquia e si faceva baciare ai fedeli la coda dell'asina che portò Gesù a Gerusalemme. Da qui, va poi a Noli, allora Repubblica indipendente, dove per quattro o cinque mesi insegna grammatica ai bambini e cosmografia agli adulti.
Sotto il portico del Palazzo comunale una lapide ricorda il soggiorno del filosofo:
« Giordano Bruno Prima d'insegnare all'Europa Le leggi dell'ordine universale Fu maestro in Noli Di grammatica e cosmografia » |
Nel 1577 è a Savona, poi a Torino, che giudica deliciosa città ma, non trovandovi impiego, per via fluviale s'indirizza a Venezia, dove alloggia in una locanda nella contrada di Frezzeria, facendovi stampare il suo primo scritto, andato perduto, De' segni de' tempi. «per metter insieme un pocco de danari per potermi sustentar; la qual opera feci veder prima al reverendo padre maestro Remigio de Fiorenza», domenicano del convento dei Santi Giovanni e Paolo.
Ma a Venezia era in corso un'epidemia di peste che aveva fatto decine di migliaia di vittime, anche illustri, come Tiziano, così Bruno va a Padova dove, dietro consiglio di alcuni domenicani, riprende il saio, quindi se ne va a Brescia, dove si ferma nel convento domenicano; qui un monaco, «profeta, gran teologo e poliglotta», sospettato di stregoneria per essersi messo a profetizzare, viene da lui guarito, ritornando a essere - scrive ironicamente Bruno - il solito «asino».
Da Bergamo, nell'estate del 1578, decide di andare in Francia: passa per Milano e Torino, ed entra in Savoia, passando l'inverno nel convento domenicano di Chambéry; nel 1579 è a Ginevra, città dove è presente una numerosa colonia di italiani riformati. Bruno depone nuovamente il saio e si veste di cappa, cappello e spada, aderisce al calvinismo e trova lavoro come correttore di bozze, grazie all'interessamento del marchese napoletano Galeazzo Caracciolo il quale, transfuga dall'Italia, nel 1552 vi aveva fondato la comunità evangelica italiana. Il 20 maggio s'iscrive all'Università come «Filippo Bruno nolano, professore di teologia sacra».
In agosto accusa il professore di filosofia Antoine de la Faye di essere un cattivo insegnante e definisce «pedagoghi» i pastori calvinisti. È probabile che Bruno volesse farsi notare, dimostrare l'eccellenza della sua preparazione filosofica e delle sue capacità didattiche per ottenere un incarico d'insegnante, costante ambizione di tutta la sua vita. Anche la sua adesione al calvinismo era mirata a questo scopo; Bruno fu in realtà indifferente a tutte le confessioni religiose: nella misura in cui l'adesione a una religione storica non pregiudicasse le sue convinzioni filosofiche e la libertà di professarle, egli sarebbe stato cattolico in Italia, calvinista in Svizzera, anglicano in Inghilterra e luterano in Germania.
Scomunicato e processato per diffamazione, il 27 agosto è costretto a ritrattare; lascia allora Ginevra e si trasferisce brevemente a Lione per passare a Tolosa, città cattolica, sede di un'importante Università, dove per quasi due anni occupò il posto di lettore, insegnandovi il De anima di Aristotele e componendo un trattato di arte della memoria, rimasto inedito e andato perduto, la Clavis magna, che si rifarebbe all'Ars magna del Lullo. A Tolosa conobbe il filosofo scettico portoghese Francisco Sanches che volle dedicargli il suo libro Quod nihil scitur, chiamandolo «filosofo acutissimo»; ma Bruno non ricambiò la stima, se scrisse di lui di considerare «stupefacente che questo asino si dia il titolo di dottore».
Nel 1581, a causa della guerra di religione fra cattolici e ugonotti, lascia Tolosa per Parigi dove «acquistai nome tale che il re Enrico terzo mi fece chiamar un giorno, ricercandomi se la memoria che havevo et che professava era naturale o pur per arte magica; al qual diedi sodisfattione; et con quello che li dissi et feci provare a lui medesmo, conobbe che non era per arte magica ma per scientia. E doppo questo feci stampar un libro de memoria, sotto titolo De umbris idearum, il qual dedicai a Sua Maestà; e con questa occasione mi feci lettor straordinario e provvisionato».
Le opere
Le prime opere parigine
Il De umbris idearum
Nell'opera, la prima parte, la Triginta intentiones idearum, individua i modi con i quali si percepiscono le ombre, le immagini della realtà; la seconda, la Triginta conceptus umbrarum, individua l'ordine dell'universo, retto platonicamente dalle idee, e la terza parte è costituita da un trattato di mnemotecnica.
In quest'opera sono già espressi i principi essenziali della sua filosofia: «Uno solo è il corpo dell'Ente universale, uno solo è l'ordine, uno solo il governo, uno solo è il principio e una sola la fine, uno solo è il primo e uno solo è l'ultimo» e dunque ogni cosa ha eguale dignità rispetto a ciascun'altra e «una sola cosa è quella che definisce tutte le cose, uno solo è lo splendore della bellezza in tutte le cose, un solo fulgore luccica dalla moltitudine delle specie».
L'universo è dunque un corpo unico, organicamente formato, con un preciso ordine che struttura ogni singola cosa e la connette con tutte le altre. Fondamento di quest'ordine sono le idee, principi eterni ed immutabili, ogni singolo ente essendo imitazione, immagine, ombra della realtà ideale che la regge. Rispecchiando in se stessa la struttura dell'universo, la mente umana, che ha in sé non le idee, ma le ombre delle idee, può raggiungere la vera conoscenza, ossia le idee e il nesso che connette ogni cosa con tutte le altre, al di là della molteplicità degli elementi particolari e del loro mutare nel tempo. Si tratta allora di cercare di ottenere un metodo conoscitivo che colga la complessità del reale, fino alla struttura ideale che sostiene il tutto.
Tale mezzo è l'arte della memoria, il cui compito è di evitare la confusione generata dalla molteplicità delle immagini e di connettere le immagini delle cose con i concetti, rappresentando simbolicamente tutto il reale. «La natura» – scrive Bruno - «non permette il passaggio immediato da un estremo all'altro, ma con l'aiuto di ombre e poco alla volta, con ombre velate» così che «l'ombra prepara la vista alla luce. L'ombra tempra la luce», concetto tratto evidentemente dal platonico mito della caverna.
Il Cantus Circaeus
Dello stesso anno è il Cantus Circaeus, opera composta da due dialoghi: nel primo la maga Circe, rovesciando il noto mito narrato da Omero, mostra all'allieva Meri come rivelare la vera natura bestiale di esseri che hanno una forma umana; nel secondo, due allievi di Bruno, Borista ed Alberico, imparano le tecniche dell'arte della memoria insegnate dal maestro.
La trasformazione degli uomini in bestie non è dunque un capriccioso sopruso ma la ricomposizione della corrispondenza fra anima e corpo, fra essenza e apparenza, la restituzione del naturale aspetto di ciascun individuo, una corrispondenza che si è perduta nella decadenza dei tempi attuali. Pochissimi saranno gli esseri umani che, al termine della dimostrazione, manterranno l'aspetto originario: «di tanti uomini che prima potevamo vedere, solo tre o quattro sono rimasti tali e corrono tremanti a mettersi al sicuro. Di tutti gli altri, chi si rifugia nella caverna più vicina, chi vola sui rami degli alberi, chi si getta a precipizio nel vicino mare mentre altri, di indole più domestica, si avvicinano in fretta alla nostra casa»; ora sono stati privati delle armi terribili proprie dell'uomo, la lingua e la mano, con le quali avevano provocato la crisi del mondo.
Il secondo dialogo è un manuale di mnemotecnica, l'arte «che mostra la via e apre l'ingresso a massime invenzioni», ove in particolare Bruno mostra come memorizzare il dialogo precedente. Al testo si fa corrispondere uno scenario che viene via via suddiviso in un maggior numero di spazi, come un appartamento diviso in stanze i cui mobili e i vari oggetti lì contenuti sono le immagini corrispondenti ai concetti espressi nello scritto.
Candelaio
Ancora nel 1582 Bruno pubblica il Candelaio, una commedia in cinque atti in cui alla complessità del linguaggio, un insieme di latino, di toscano e di napoletano, corrisponde l'eccentricità della trama, fondata su tre storie parallele. Il candelaio Bonifacio, pur sposato con la bella Carubina, corteggia la cortigiana Vittoria, l'alchimista Bartolomeo si ostina a cercare inutilmente di trasformare i metalli in oro, il grammatico Manfurio si esprime in un linguaggio incomprensibile e il pittore Gioan Bernardo, insieme con una corte di servi e malfattori, si fa beffe di tutti e conquista Carubina.
In questo classico della letteratura italiana, appare un mondo assurdo, violento e corrotto, rappresentato con amara comicità, dove gli eventi si succedono in una trasformazione continua: «il tempo tutto toglie e tutto dà; ogni cosa si muta, nulla s'annichila; è un solo che non può mutarsi, un solo è eterno, e può perseverare eternamente uno, simile e medesimo. Con questa filosofia l'animo mi si aggrandisce, e me si magnifica l'intelletto» e nulla è «di sicuro, ma assai di negocio, difetto a bastanza, poco di bello e nulla di buono».
Nel titolo della commedia Bruno definisce se stesso un accademico di nessuna accademia, ilare nella tristezza e triste nell'ilarità e si fa una sorta di autoritratto: «par che sempre sii in contemplazione delle pene dell'inferno [...] un che ride solo per far come fan gli altri: per lo più lo vedrete fastidito, restio e bizarro: non si contenta di nulla, ritroso come un vecchio d'ottant'anni, fantastico com'un cane ch'ha ricevuto mille spellicciate, pasciuto di cipolla».
La commedia è ambientata nella Napoli-metropoli del secondo Cinquecento, di cui abbiamo, come rileva Pasquale Sabbatino, il ritratto cartografico disegnato da Du Pérac e stampato da Antoine Lafréry a Roma nel 1566 e la descrizione di Giovanni Tarcagnota, Del sito, et lodi della città di Napoli, apparsa a Napoli, nello stesso anno, presso Scotto.
In Inghilterra
Nell'aprile 1583 «andai in Inghilterra a star con l'ambasciator di Sua Maestà, che si chiamava il signor della Malviciera, per nome Michel de Castelnovo; in casa del qual non faceva altro, se non che stava per suo gentilhomo. Et me fermai in Inghilterra doi anni et mezo; né in questo tempo, ancora che si dicesse la messa in casa, non andavo né fuori a messa, né a prediche, per la causa sudetta». A giugno, a Oxford, nella chiesa di St Mary, sostenne con uno di quei professori una disputa pubblica. Tornato a Londra, vi pubblicò l' Ars reminiscendi – che riproduce la parte finale del Cantus circaeus - il Sigillus sigillorum e l' Explicatio triginta sigillorum, nella quale inserì una lettera indirizzata al vice cancelliere dell'Università di Oxford, nella quale scrisse che a Oxford «troveranno dispostissimo e prontissimo un uomo col quale saggiare la misura delle proprie forze». È una richiesta di poter insegnare nella prestigiosa Università che viene accolta e nell'estate del 1583 Bruno vi tiene tre lezioni sulle teorie copernicane.
Con gli studi di Frances Yates (da un documento scoperto da Robert McNulty) a Oxford non gradiscono quelle finte novità, come testimonierà venti anni dopo, nel 1604, l'arcivescovo di Canterbury Georg Abbot, che fu presente alle lezioni di Bruno, «quell'omiciattolo italiano [...] intraprese il tentativo, tra moltissime altre cose, di far stare in piedi l'opinione di Copernico, per cui la terra gira e i cieli stanno fermi; mentre in realtà era la sua testa che girava e il suo cervello che non stava fermo». Le lezioni furono interrotte quando si accorgono (quasi parola per parola) del plagio al De vita coelitus comparanda di Marsilio Ficino, dove la teoria eliocentrica è ridotta ad una magia; quindi sempre derivante dal Corpus Hermeticum.
Ritornato a Londra, nel 1584 vi pubblicò La cena de le ceneri, il De la causa, principio et uno, il De l'infinito, universo e mondi e lo Spaccio de la bestia trionfante, mentre l'anno successivo uscirono De gli eroici furori e la Cabala del cavallo pegaseo.
Le opere londinesi
La Cena de le Ceneri
La Cena de le Ceneri è divisa in cinque dialoghi ed è la sua seconda opera in volgare, dedicata all'ambasciatore francese a Londra Michel de Castelnau. Bruno immagina che il nobile sir Fulke Greville, il giorno delle Ceneri, inviti a cena Bruno, Giovanni Florio, segretario dell'ambasciatore francese, il medico Matthew Gwinne, il cavaliere Brown e due dottori luterani di Oxford.
Bruno vi difende la teoria di Niccolò Copernico contro gli attacchi dei conservatori e contro chi, come Andrea Osiander, considera solo un'ipotesi ingegnosa quella del Copernico, «uomo» – scrive Bruno – «che non è inferiore a nessuno astronomo, che sii stato avanti lui [...]: al che è divenuto, per essersi liberato da alcuni presuppositi falsi de la commune e volgar filosofia, non voglio dir cecità, ma però non se n'è molto allontanato; perché lui più studioso de la matematica, che de la natura, non ha possuto profondar e penetrar sin tanto, che potesse a fatto toglier via le radici d'inconvenienti e vani principii».
I vani principi sono la finitezza dell'universo e il credere che in esso esista un centro dove ora dovrebbe trovarsi immobile il sole come prima vi si immaginava fissa la terra. Seguendo la Docta ignorantia del Cusano, Bruno sostiene l'infinità dell'universo, in quanto effetto di una causa infinita, e dunque l'insussistenza di un centro. Bruno è naturalmente consapevole che le Scritture sostengono tutt'altro – finitezza dell'universo e centralità della terra – ma, risponde, «se gli dei si fossero degnati di insegnarci la teorica delle cose della natura, come ne han fatto favore di proporci la pratica di cose morali, io più tosto mi accosterei alla fede de le loro rivelazioni, che muovermi punto della certezza de mie raggioni e proprii sentimenti». Ma la Scrittura tratta le norme morali, non è già una filosofia della natura, non si occupa delle speculazioni e delle dimostrazioni delle cose naturali: la Scrittura «parla al volgo di maniera che, secondo il suo modo di intendere e di parlare, venghi a capire quel ch'è principale».
Come occorre distinguere tra dottrine morali e filosofia naturale, così occorre distinguere tra teologi e filosofi: questi sanno che non esistono premi e punizioni in una vita futura, perché le anime, secondo Bruno, si reincarnano in corpi sempre diversi, mentre i teologi hanno imposto punizioni ed elargito premi allo scopo di far rispettare le buone norme del comportamento sociale.
De la causa, principio et uno: la Vita come materia infinita
I cinque dialoghi del De la causa, principio et uno intendono stabilire i principi della realtà naturale. Bruno lascia da parte il problema di Dio, del quale, come causa e principio della natura, non possiamo conoscere nulla attraverso il «lume naturale», perché esso «ascende sopra la natura» e si può pertanto conoscere Dio solo per «lume soprannaturale», ossia solo per fede.
Forma universale del mondo è l'anima del mondo, la cui prima e principale facoltà è l'intelletto universale il quale «empie il tutto, illumina l'universo e indirizza la natura a produrre le sue specie»: i pitagorici lo chiamano motore ed agitatore dell'universo, i platonici il fabbro del mondo, proprio perché forma la materia dal suo interno, e dunque è sua causa intrinseca, ma è anche causa estrinseca, dal momento che non si esaurisce nelle cose. L'intelletto è il «principio formale costitutivo de l'universo e di ciò che in quello si contiene» e la forma non è altro che il principio vitale, l'anima delle cose le quali, proprio perché tutte dotate di anima, non hanno imperfezione.
La materia non è in se stessa indifferenziata, un nulla, come hanno sostenuto tutti i filosofi, una bruta potenza, senza atto e senza perfezione, come direbbe Aristotele: questi considera l'atto la manifestazione esplicita della forma, non la forma implicita, errando, per Bruno, perché «l'essere espresso, sensibile ed esplicato, non è la principal raggion de l'attualità, ma è cosa consequente et effetto di quella»: così come la ragione della sostanza della materia legno non sta nell'essere, per esempio, un letto, ma nell'essere una sostanza e nell'avere una consistenza tale da poter essere qualunque cosa formata di legno. Anche se pensata senza una forma, non per questo la materia «come il ghiaccio è senza calore» ma semmai «come la pregnante è senza la sua prole, la quale la manda e la riscuote da sé [...] non viene a ricever le dimensioni come di fuora, ma a cacciarle come dal seno».
La materia è allora il secondo principio della natura, dalla quale ogni cosa è formata: «come nell'arte, variandosi in infinito le forme, è sempre una materia medesma che persevera sotto quella, come la forma dell'albore è una forma di tronco, poi di trave, poi di tavolo, poi di scabello, e così via discorrendo, tuttavolta l'esser legno sempre persevera; non altrimenti nella natura, variandosi in infinito e e succedendo l'una all'altra le forme, è sempre una medesma la materia». Essa è «potenza d'esser fatto, prodotto e creato», aspetto equivalente al principio formale che è potenza attiva, «potenza di fare, di produrre, di creare» e non può esserci l'un principio senza l'altro, sicché «il tutto secondo la sostanza è uno».
Discende da questa considerazione l'elemento fondamentale della filosofia bruniana: tutta la vita è materia, materia infinita. Scrive infatti che, sia in atto che in potenza, sia che abbia un'estensione - sia cioè sostanza corporea - sia che non abbia estensione - e sia allora sostanza incorporea - è pur sempre materia, e «tutta la differenza depende dalla contrazione a l'essere corporea e non essere corporea [...] quella materia per essere attualmente tutto quel che può essere, ha tutte le misure, ha tutte le specie di figure e di dimensioni; e perché le ave tutte, non ne ha nessuna, perché quello che è tante cose diverse bisogna che non sia alcuna di quelle particolari. Conviene, a quello che è tutto, che escluda ogni essere particolare».
«È dunque l'universo uno, infinito, immobile; una è la possibilità assoluta, uno l'atto, una la forma o anima, una la materia o corpo, una la cosa, uno lo ente, uno il massimo et ottimo; il quale non deve poter essere compreso; e perciò infinibile e interminabile, e per tanto infinito e interminato e per conseguenza immobile; questo non si muove localmente, perché non ha cosa fuor di sé ove si trasporte, atteso che sia il tutto; non si genera perché non è altro essere che lui possa derivare o aspettare, atteso che abbia tutto l'essere; non si corrompe perché non è altra cosa in cui si cange, atteso che lui sia ogni cosa; non può sminuire o crescere, atteso che è infinito, a cui non si può aggiungere, così è da cui non si può sottrarre, per ciò che lo infinito non ha parti proporzionabili».
Il De l'infinito, universo e mondi
Nel De l'infinito, universo e mondi Bruno riprende temi già affrontati nei dialoghi precedenti - la necessità di un accordo tra filosofi e teologi, perché «la fede si richiede per l'istituzione di rozzi popoli che denno esser governati», l'infinità dell'universo e l'esistenza di mondi infiniti, la mancanza di un centro in un universo infinito, che comporta un'ulteriore conseguenza, la scomparsa dell'antico, ipotizzato ordine gerarchico, la «vanissima fantasia» che riteneva che al centro vi fosse il «corpo più denso e crasso» e si ascendesse ai corpi più fini e divini. La concezione aristotelica è difesa ancora da quei dottori che hanno fede nella «fama de gli autori che gli son stati messi nelle mani», ma i filosofi moderni, che non hanno interesse a intendere quello che dicono gli altri, ma pensano con la loro testa, si sbarazzano di queste anticaglie e si avviano «con più sicuri passi alla cognizione della natura».
L'etica civile: lo Spaccio de la bestia trionfante
Insieme con i successivi De gli eroici furori, lo Spaccio de la bestia trionfante è costituito da tre dialoghi di argomento morale. Le bestie trionfanti sono i segni delle costellazioni celesti, rappresentate da animali: occorre «spacciarle», cacciarle dal cielo in quanto rappresentanti vecchi vizi che è tempo di sostituire con moderne virtù, occorre una nuova serie di valori cui l'uomo moderno possa e debba fare riferimento.
Occorre tornare alla sincerità, semplicità e alla verità, ribaltando le concezioni morali che si sono ormai imposte nel mondo, secondo le quali le opere e gli affetti eroici sono privi di valore, dove credere senza riflettere è sapienza, dove le imposture umane sono fatte passare per consigli divini, la perversione della legge naturale è considerata pietà religiosa, studiare è follia, l'onore è posto nelle ricchezze, la dignità nell'eleganza, la prudenza nella malizia, l'accortezza nel tradimento, il saper vivere nella finzione, la giustizia nella tirannia, il giudizio nella violenza.
Il cristianesimo è responsabile di questa crisi: già Paolo operò il rovesciamento dei valori naturali e ora la Riforma ha chiuso il ciclo: la ruota della storia, della vicissitudine del mondo, essendo giunta al suo punto più basso, può operare un nuovo e positivo rovesciamento dei valori.
Nella nuova gerarchia di valori il primo posto spetta alla verità, cui segue la prudenza, la caratteristica del saggio che, conosciuta la verità, ne trae le conseguenze con un comportamento adeguato. Al terzo posto Bruno inserisce la sofia, la ricerca della verità e dopo viene la legge, che disciplina il comportamento civile dell'uomo. Vengono poi la fortezza, la forza dell'animo, virtù interiore cui seguono virtù indirizzate agli altri, la filantropia e la magnanimità. È questa evidentemente un'etica che richiama i valori tradizionali dell'Umanesimo, cui Bruno non ha mai dato molta importanza; ma questo schema rigido è in realtà la premessa per le indicazioni di comportamento che Bruno prospetta nell'opera di poco successiva, De gli eroici furori.
« Li nostri divi asini, privi del proprio sentimento ed affetto vegnono ad intendere non altrimente che come gli vien soffiato alle orecchie delle rivelazioni o degli dei, o dei vicarii loro; e per conseguenza a governarsi non secondo altra legge che di que' medesimi. » | |
(Giordano Bruno, Cabala del Cavallo Pegaseo) |
Gli Eroici furori
Nei dieci dialoghi che compongono l'opera De gli eroici furori, pubblicati a Londra nel 1585, Bruno individua tre specie di passioni umane: quella per la vita speculativa, volta alla conoscenza, quella per la vita pratica e attiva, e quella per la vita oziosa. Le due ultime tendenze sono espressione di un furore di poco valore, un «furore basso»; il desiderio di una vita volta alla contemplazione è l'espressione di un «furore eroico», con il quale l'anima, «rapita sopra l'orizzonte de gli affetti naturali [...] vinta da gli alti pensieri, come morta al corpo, aspira ad alto».
Non si giunge a tale effetto con la preghiera, con atteggiamenti devozionali, con «aprir gli occhi al cielo, alzar alto le mani» ma, al contrario, con il «venir al più intimo di sé, considerando che Dio è vicino, con sé e dentro di sé più ch'egli medesmo esser non si possa, come quello che è anima delle anime, vita delle vite, essenza de le essenze». Una ricerca che Bruno assimila a una caccia, non la comune caccia ove il cacciatore ricerca e cattura le prede, ma quella in cui il cacciatore diviene esso stesso preda, come Atteone che, avendo visto la bellezza di Diana, si è fatto preda dei cani, i «pensieri de cose divine», che lo divorano «facendolo morto al volgo, alla moltitudine, sciolto dalli nodi de li perturbati sensi, libero dal carnal carcere della materia, onde più non vegga come per forami e per foreste la sua Diana ma, avendo gittate le muraglie a terra, è tutto occhio a l'aspetto de tutto l'orizonte. Di sorte che tutto vede come uno, non vede più distinzioni e numeri, che [...] fanno vedere e apprendere in confusione. Vede l'Anfitrite, il fonte de tutti numeri, de tutte specie, de tutte ragioni, che è la monade, vera essenza de l'essere de tutti; e se no la vede in sua essenza, in absoluta luce, la vede ne la sua genitura, che gli è simile, che è la sua imagine: perché dalla monade che è la divinitade, procede questa monade che è la natura, l'universo, il mondo».
La conoscenza della natura è lo scopo della scienza e della nostra vita stessa, che da questa scelta viene trasformata in un «furore eroico» che ci assimila alla perenne e tormentata «vicissitudine» in cui si esprime il principio che anima tutto l'universo.
Il ritorno in Francia
Nell'ottobre 1585 l'ambasciatore Castelnau è richiamato in Francia e Giordano Bruno s'imbarca con lui; la nave diretta in Francia è assalita dai pirati, che derubano i passeggeri d'ogni avere. Bruno abita a Parigi, presso il Collège de Cambrai, e ogni tanto va a prendere in prestito qualche libro nella biblioteca di Saint-Victor, nella collina di Sainte-Geneviève, il cui bibliotecario, il monaco Guillaume Cotin, ha l'abitudine di annotare giornalmente quanto avveniva nella biblioteca. Entrato in qualche confidenza col filosofo, da lui sappiamo che Bruno stava per pubblicare un'opera, l' Arbor philosophorum, che non ci è pervenuta, che aveva lasciato l'Italia per «evitare le calunnie degli inquisitori, che sono ignoranti e che, non conoscendo la sua filosofia, lo prenderebbero per eretico». Ammiratore di san Tommaso, Bruno disprezzava «le sottigliezza degli scolastici, dei sacramenti e anche dell'eucaristia, ignote a san Pietro e a san Paolo, i quali non seppero altro che hoc est corpus meus. Dice che i torbidi religiosi sarebbero facilmente eliminati se fossero spazzate via tali questioni e spera che questa sarà presto la fine della contesa. Detesta in sommo grado gli eretici di Francia e d'Inghilterra, perché non tengono conto delle buone azioni e predicano la certezza della loro fede e giustificazione, mentre tutta la cristianità tende al buon vivere».
L'anno successivo pubblica, dedicata a Piero Del Bene, abate di Belleville e membro della corte francese, la Figuratio Aristotelici physici auditus, un'esposizione della fisica aristotelica. Conosce il salernitano Fabrizio Mordente, che due anni prima aveva pubblicato Il Compasso, illustrazione dell'invenzione di un compasso di nuova concezione e, poiché egli non sa il latino, Bruno, che ha apprezzato la sua invenzione, pubblica i Dialogi duo de Fabricii Mordentis Salernitani prope divina adinventione ad perfectam cosmimetriae praxim, dove elogia l'inventore ma gli rimprovera di non aver compreso tutta la portata della sua invenzione, che dimostrava l'impossibilità di una divisione infinita delle lunghezze. Offeso da questi rilievi, il Mordente protestò violentemente, sicché Bruno finì col replicare con le feroci satire dell' Idiota triumphans seu de Mordentio inter geometras Deo dialogus e del Dialogus qui De somnii interpretatione seu Geometrica sylva inscribitur.
Il 28 maggio 1586 fa stampare col nome del discepolo Jean Hennequin l'opuscolo antiaristotelico Centum et viginti articuli de natura et mundo adversus peripateticos, partecipando alla successiva pubblica disputa nel Collège de Cambrai, ribadendo le sue critiche alla filosofia aristotelica. Contro tali critiche si levò un giovane avvocato parigino, Raoul Callier, che replicò con violenza chiamando il filosofo Giordano Bruto. Sembra che l'intervento del Callier abbia ricevuto l'appoggio di quasi tutti gli intervenuti e che si sia scatenato un putiferio di fronte al quale il filosofò preferì, una volta tanto, allontanarsi, ma le reazioni negative provocate dal suo intervento contro la filosofia aristotelica, allora ancora in grande auge alla Sorbona, unitamente alla crisi politica e religiosa in corso in Francia e alla mancanza di appoggi a corte, lo indussero a lasciare il paese.
In Germania
Raggiunta in giugno la Germania, soggiorna brevemente a Magonza e a Wiesbaden, passando poi a Marburg, nella cui Università risulta immatricolato il 25 luglio 1586 theologiae doctor romanensis. Ma non trovando possibilità di insegnamento, probabilmente per le sue posizioni antiaristoteliche, il 20 agosto 1586 s'immatricola nell'Università di Wittenberg come doctor italicus, insegnandovi per due anni.
Nel 1587 pubblica il De lampade combinatoria lulliana, un commento dell' Ars magna di Raimondo Lullo e il De progressu et lampade venatoria logicorum, commento ai Topica di Aristotele; altri commenti a opere aristoteliche sono i suoi Libri physicorum Aristotelis explanati, pubblicati nel 1591. Un suo corso privato sulla Retorica sarà pubblicato nel 1612 col titolo di Artificium perorandi; anche le Animadversiones circa lampadem lullianam e la Lampas triginta statuarum verranno pubblicate soltanto nel 1891.
Il nuovo duca Cristiano I, succeduto al padre morto l'11 febbraio 1586, decide di rovesciare l'indirizzo degli insegnamenti universitari che privilegiavano le dottrine di Pietro Ramo a svantaggio delle classiche teorie aristoteliche. Dovette essere questa svolta a spingere Bruno, l'8 marzo 1588, a lasciare l'Università di Wittenberg, non senza la lettura di una Oratio valedictoria, un saluto che è un ringraziamento per l'ottima accoglienza della quale è stato gratificato: «sebbene fossi di nazione forestiero, esule, fuggiasco, zimbello della fortuna, piccolo di corpo, scarso di beni, privo di favore, premuto dall'odio della folla, quindi sprezzabile agli stolti e a quegli ignobilissimi che non riconoscono nobiltà se non dove splende l'oro, tinnisce l'argento, e il favore di persone loro simili tripudia e applaude, tuttavia voi, dottissimi, gravissimi e morigeratissimi senatori, non mi disprezzaste, e lo studio mio, non del tutto alieno dallo studio di tutti i dotti della vostra nazione, non lo riprovaste permettendo che fosse violata la libertà filosofica e macchiato il concetto della vostra insigne umanità».
Ne fu ricambiato dall'affetto degli allievi, come Hieronymus Besler e Valtin Havenkenthal, il quale, nel suo saluto, lo chiama «Essere sublime, oggetto di meraviglia per tutti, dinanzi a cui stupisce la natura stessa, superata dall'opera sua, fiore d'Ausonia, Titano della splendida Nola, decoro e delizia dell'uno e l'altro cielo».
In aprile va a Praga, dove rimane sei mesi. Pubblica il De lampade combinatoria lulliana e il De lulliano specierum scrutinio, dedicati all'ambasciatore spagnolo don Gugliemo de Haro, il quale vantava Raimondo Lullo fra i suoi antenati, mentre all'imperatore Rodolfo II dedica gli Articuli centum et sexaginta adversus huius tempestatis mathematicos atque philosophos, che trattano di geometria, e nella dedica rileva come per guarire i mali del mondo sia necessaria la tolleranza, sia in campo strettamente religioso - «È questa la religione che io osservo, sia per una convinzione intima sia per la consuetudine vigente nella mia patria e tra la mia gente: una religione che esclude ogni disputa e non fomenta alcuna controversia» - che in quello filosofico, che deve rimanere libero da autorità precostituite e da tradizioni elevate a prescrizioni normative. Quanto a lui, «alle libere are della filosofia cercai riparo dai flutti fortunosi, desiderando la sola compagnia di coloro che comandano non di chiudere gli occhi, ma di aprirli. A me non piace dissimulare la verità che vedo, né ho timore di professarla apertamente»
Ricompensato con trecento talleri dall'imperatore, in autunno lascia Praga e, dopo una breve sosta a Tubinga, giunge a Helmstedt, nella cui Università, chiamata Accademia Julia, si registra il 13 gennaio 1589.
Il 1º luglio 1589, per la morte del fondatore dell'Accademia, Julius von Braunschweig, vi legge l' Oratio consolatoria, ove presenta se stesso come forestiero ed esule: «spregiai, abbandonai, perdetti la patria, la casa, la facoltà, gli onori, e ogni altra cosa amabile, appetibile, desiderabile». In Italia «esposto alla gola e alla voracità del lupo romano, qui libero. Lì costretto a culto superstizioso e insanissimo, qui esortato a riti riformati. Lì morto per violenza di tiranni, qui vivo per l'amabilità e la giustizia di un ottimo principe». Le Muse dovrebbe essere libere per diritto naturale eppure «sono invece, in Italia e in Spagna, conculcate dai piedi di vili preti, in Francia patiscono per la guerra civile rischi gravissimi, in Belgio sono sballottate da frequenti marosi, e in alcune regioni tedesche languono infelicemente».
Poche settimane dopo viene scomunicato dal sovrintendente della Chiesa luterana della città, il teologo luterano Heinrich Boethius - e non, come si riporta comunemente, un tale pastore di nome Gilbert Vöet, che non è mai esistito a Helmstedt per motivi non noti: Bruno riesce così a collezionare le scomuniche delle maggiori confessioni europee, cattolica, calvinista e luterana. Il 6 ottobre 1586 presenta ricorso al prorettore dell'Accademia, Daniel Hoffmann, contro quella che egli definisce un abuso - perché «chi ha deciso qualcosa senza ascoltare l'altra parte, anche se lo ha fatto giustamente, non è stato giusto» - e una vendetta privata. Non ricevette però risposta, perché sembra che fosse stato lo stesso Hoffmann a istigare Boethius.
Benché scomunicato, poté tuttavia rimanere ancora a Helmstedt, dove aveva ritrovato Valtin Acidalius Havenkenthal e Hieronymus Besler, già suo allievo a Wittenberg, che gli fa da copista e vedrà ancora brevemente in Italia, a Padova. Bruno compone diverse opere sulla magia, tutte pubblicate solo nel 1891: il De magia, le Theses de magia, un compendio del trattato precedente, il De magia mathematica (che presenta come fonti la Steganographia di Tritemio, il De occulta philosophia di Agrippa e lo pseudo-Alberto Magno), il De rerum principiis et elementis et causis e la Medicina lulliana, nella quale presume di aver trovato forme di applicazione della magia nella natura.
Alla fine di aprile del 1590 lascia Helmstedt e in giugno raggiunge Francoforte in compagnia del Besler, che prosegue verso l'Italia per studiare a Padova. Avrebbe voluto alloggiare dallo stampatore Johann Wechel, come richiese il 2 luglio al Senato di Francoforte ma la richiesta è respinta e allora Bruno andò ad abitare nel locale convento dei Carmelitani i quali, per privilegio concesso da Carlo V nel 1531, non erano soggetti alla giurisdizione secolare.
Nel 1591 vedono la luce tre opere: il De triplici minimo et mensura ad trium speculativarum scientiarum et multarum activarum artium principia libri V (in cui vi sono delle immagini simili alla tabula recta di Tritemio); verso febbraio parte per la Svizzera, accogliendo l'invito di Hans Heinzel von Dagernstein e di Raphael Egli, ove per quattro o cinque mesi insegna filosofia a Zurigo: le sue lezioni, raccolte con il titolo di Summa terminorum metaphisicorum, saranno in parte pubblicate a Zurigo nel 1595 e poi a Marburg nel 1609, insieme con la Praxis descensus seu applicatio entis.
Ritornato a Francoforte in luglio, vi pubblica il De monade, numero et figura liber consequens quinque, il De imaginum, signorum et idearum compositione, dedicato ad Hans Heinzel, e il De innumerabilibus, immenso et infigurabili, seu De universo et mundis libri octo.
Le ultime opere
Bruno usa il verso latino nelle sue ultime opere di Francoforte: nei cinque libri del De minimo, il cui titolo preciso è De triplici minimo et mensura, distingue tre tipi di minimo: il minimo fisico, l'atomo, che è alla base della scienza della fisica, il minimo geometrico, il punto, che è alla base della geometria e il minimo metafisico, o monade, che è alla base della metafisica. Essere minimo significa essere indivisibile – e dunque Aristotele sbaglia sostenendo la divisibilità all'infinito della materia – perché, se così fosse, non raggiungendo mai la minima quantità di una sostanza, il principio e fondamento di ogni sostanza, non spiegheremmo più la costituzione, mediante aggregazioni di infiniti atomi, di mondi infiniti, in un processo di formazione altrettanto infinito. I composti, infatti, «non rimangono identici neppure per un attimo; ciascuno di essi, per lo scambio vicendevole degli innumerevoli atomi, si muta continuamente e ovunque in tutte le parti».
Nel De monade Bruno si richiama alle tradizioni pitagoriche attaccando la teoria aristotelica del motore immobile, principio di ogni movimento: le cose si trasformano per la presenza di principi interni, numerici e geometrici.
Negli otto libri del De immenso riprende la propria teoria cosmologica, appoggiando la teoria eliocentrica copernicana ma rifiutando l'esistenza delle sfere cristalline e degli epicicli e ribadendo la concezione dell'infinità e molteplicità dei mondi, criticando l'aristotelismo, col negare qualunque differenza tra la materia terrestre e celeste, la circolarità del moto planetario, l'esistenza dell'etere.
Il ritorno in Italia
Allora come oggi, Francoforte era sede di un'importante fiera del libro, alla quale partecipavano i librai di tutta l'Europa. Fu così che due librai, il senese Giambattista Ciotti e il fiammingo Giacomo Brittano, entrambi attivi a Venezia, conobbero Bruno. A Venezia, il patrizio Giovanni Mocenigo, avendo comprato nella libreria del Ciotti il De minimo del filosofo nolano, affidò al Ciotti una sua lettera nella quale invitava Bruno a Venezia per insegnargli «li secreti della memoria e li altri che egli professa, come si vede in questo suo libro».
Nell'agosto 1591 Bruno giunse a Venezia dove si trattenne per pochi giorni e poi andò a Padova per incontrare il Besler, il suo copista di Helmstedt. Tenne per qualche mese lezioni agli studenti tedeschi che frequentavano quella Università e sperò invano di ottenervi la cattedra di matematica. Qui compone anche le Praelectiones geometricae, l' Ars deformationum, il De vinculis e il De sigillis Hermetis et Ptolomaei et aliorum, andato perduto.
A novembre, con il ritorno del Besler in Germania per motivi familiari, Bruno tornò a Venezia ma per mesi non si recò dal Mocenigo: solo dalla fine del marzo 1592 si stabilì in casa del patrizio veneziano, interessato alle arti della memoria e alle discipline magiche. Il 21 maggio informò il Mocenigo di voler tornare a Francoforte per stampare delle sue opere: questi pensò che Bruno cercasse un pretesto per abbandonare le lezioni e il giorno dopo lo fece sequestrare in casa dai suoi servitori; il 23 maggio presentò all'Inquisizione una denuncia scritta, accusandolo di blasfemia, di disprezzare le religioni, di non credere nella Trinità divina e nella transustanziazione, di credere nell'eternità del mondo e nell'esistenza di mondi infiniti, di praticare arti magiche, di credere nella metempsicosi, di negare la verginità di Maria e le punizioni divine.
Quella sera stessa Bruno fu arrestato e rinchiuso nelle carceri dell'Inquisizione di Venezia, in San Domenico a Castello.
Il processo e la condanna
Naturalmente Bruno sa che la sua vita è in gioco e si difende abilmente dalle accuse dell'Inquisizione veneziana: nega quanto può, tace, e mente anche, su alcuni punti delicati della sua dottrina, confidando che gli inquisitori non possano essere a conoscenza di tutto quanto egli abbia fatto e scritto, e giustifica le differenze fra le concezioni da lui espresse e i dogmi cattolici con il fatto che un filosofo, ragionando secondo «il lume naturale», può giungere a conclusioni discordanti con le materie di fede, senza dover per questo essere considerato un eretico. A ogni buon conto, dopo aver chiesto perdono per gli «errori» commessi, si dichiara disposto a ritrattare quanto si trovi in contrasto con la dottrina della Chiesa.
L'Inquisizione romana chiede però la sua estradizione, che viene concessa, dopo qualche esitazione, dal Senato veneziano. Il 27 febbraio 1593 Bruno è rinchiuso nelle carceri romane del Palazzo del Sant'Uffizio. Nuovi testi, per quanto poco affidabili, essendo tutti imputati di vari reati dalla stessa Inquisizione, confermano le accuse e ne aggiungono di nuove.
Giordano Bruno fu probabilmente torturato alla fine di marzo 1597, secondo la decisione della Congregazione presa il 24 marzo, anche se per alcuni studi recenti non fu mai torturato. Giordano Bruno non rinnegò i fondamenti della sua filosofia: ribadì l'infinità dell'universo, la molteplicità dei mondi, la non generazione delle sostanze - «queste non possono essere altro che quel che sono state, né saranno altro che quel che sono, né alla loro grandezza o sostanza s'aggionge mai, o mancarà ponto alcuno, e solamente accade separatione, e congiuntione, o compositione, o divisione, o translatione da questo luogo a quell'altro» - e il moto della Terra. A questo proposito spiega che «il modo e la causa del moto della terra e della immobilità del firmamento sono da me prodotte con le sue raggioni et autorità e non pregiudicano all'autorità della divina scrittura». All'obiezione dell'inquisitore, che gli contesta che nella Bibbia è scritto che la «Terra stat in aeternum» e il sole nasce e tramonta, risponde che vediamo il sole «nascere e tramontare perché la terra se gira circa il proprio centro»; alla contestazione che la sua posizione contrasta con «l'autorità dei Santi Padri», risponde che quelli «sono meno de' filosofi prattichi e meno attenti alle cose della natura».
Sostiene che la terra è dotata di un'anima, che le stelle hanno natura angelica, che l'anima non è forma del corpo; come unica concessione, è disposto ad ammettere l'immortalità dell'anima umana.
Il 12 gennaio 1599 è invitato ad abiurare otto proposizioni eretiche, nelle quali si comprendevano la sua negazione della creazione divina, dell'immortalità dell'anima, la sua concezione dell'infinità dell'universo e del movimento della Terra, dotata anche di anima, e di concepire gli astri come angeli. La sua disponibilità ad abiurare, a condizione che le proposizioni siano riconosciute eretiche non da sempre, ma solo ex nunc, è respinta dalla Congregazione dei cardinali inquisitori, tra i quali il Bellarmino. Una successiva applicazione della tortura, proposta dai consultori della Congregazione il 9 settembre 1599, fu invece respinta da papa Clemente VIII. Nell'interrogatorio del 10 settembre Bruno si dice ancora pronto all'abiura, ma il 16 cambia idea e infine, dopo che il Tribunale ha ricevuto una denuncia anonima che accusa Bruno di aver avuto fama di ateo in Inghilterra e di aver scritto il suo Spaccio della bestia trionfante direttamente contro il papa, il 21 dicembre rifiuta recisamente ogni abiura, non avendo, dichiara, nulla di cui doversi pentire.
L'8 febbraio 1600, dinnanzi ai cardinali inquisitori e dei consultori Benedetto Mandina, Francesco Pietrasanta e Pietro Millini, è costretto ad ascoltare inginocchiato la sentenza di condanna a morte per rogo; si alza e ai giudici indirizza la storica frase: «Maiori forsan cum timore sententiam in me fertis quam ego accipiam» («Forse tremate più voi nel pronunciare questa sentenza che io nell'ascoltarla»).
Dopo aver rifiutato i conforti religiosi e il crocefisso, il 17 febbraio, con la lingua in giova - serrata da una morsa perché non possa parlare - viene condotto in piazza Campo de' Fiori, denudato, legato a un palo e arso vivo. Le sue ceneri saranno gettate nel Tevere.
A distanza di 400 anni, il 18 febbraio 2000 il papa Giovanni Paolo II, tramite una lettera del suo segretario di Stato Sodano inviata ad un convegno che si svolse a Napoli, espresse profondo rammarico per la morte atroce di Giordano Bruno, non riabilitandone la dottrina: la morte di Giordano Bruno "costituisce oggi per la Chiesa un motivo di profondo rammarico". Tuttavia, "questo triste episodio della storia cristiana moderna" non consente la riabilitazione dell'opera del filosofo nolano arso vivo come eretico, perché "il cammino del suo pensiero lo condusse a scelte intellettuali che progressivamente si rivelarono, su alcuni punti decisivi, incompatibili con la dottrina cristiana".
Il monumento a Roma
Nel penultimo decennio del 1800 un Comitato internazionale, costituito fra gli altri da Ernst Renan, Victor Hugo, Herbert Spencer e Silvio Spaventa, si fece promotore dell'iniziativa di erigere un monumento in memoria del filosofo. Il potere ecclesiastico si oppose fermamente a tale iniziativa, e la cosa degenerò quando, nel gennaio 1888, una manifestazione di studenti in favore del monumento fu repressa dalla polizia. A dicembre finalmente il Consiglio comunale concesse l'autorizzazione e lo spazio in piazza Campo de' Fiori, dopo che anche l'allora capo del governo Francesco Crispi ebbe espresso parere favorevole. Il 9 giugno 1889 il monumento, opera dello scultore Ettore Ferrari, venne finalmente inaugurato. Il Papa Leone XIII, che aveva addirittura minacciato di lasciare Roma, rimase l'intero giorno inginocchiato davanti alla statua di San Pietro, pregando contro «la lotta ad oltranza contro la religione cattolica». La celebrazione del 9 giugno 1889 apparve un evento di portata europea: i sentimenti a favore della libertà scientifica e contro l'oscurantismo religioso vennero espressi in una imponente manifestazione. 30.000 persone marciarono per le strade di Roma per poter ascoltare il discorso dell'oratore ufficiale: Giovanni Bovio, il quale disse che il Papa soffriva di più le celebrazioni di quella giornata che la perdita dello Stato della Chiesa.
La ricezione della filosofia di Bruno
Malgrado la messa all'Indice dei libri di Giordano Bruno decretata il 7 agosto 1603, questi continuarono a essere presenti nelle biblioteche europee, anche se rimasero equivoci e incomprensioni sulle posizioni del filosofo nolano, così come volute mistificazioni sulla sua figura. Già il cattolico Kaspar Schoppe, ex luterano che assistette alla pronuncia della sentenza e al rogo del Nolano, pur non condividendo «l'opinione volgare secondo la quale codesto Bruno fu bruciato perché luterano» finisce con l'affermare che «Lutero ha insegnato non solo le stesse cose di Bruno, ma altre ancora più assurde e terribili», mentre il frate minimo Marin Mersenne individuò, nel 1624, nella cosmologia bruniana la negazione della libertà di Dio, oltre che del libero arbitrio umano.
Mentre gli astronomi Tycho Brahe e Keplero criticarono l'ipotesi dell'infinità dell'universo, non presa in considerazione nemmeno da Galileo, il libertino Gabriel Naudé, nella sua Apologie pour tous les grands personnages qui ont testé faussement soupçonnez de magie, del 1653, esaltò in Bruno il libero ricercatore delle leggi della natura.
Pierre Bayle, nel suo Dizionario del 1697, arrivò a dubitare della morte per rogo di Bruno e vide in lui il precursore di Spinoza e di tutti i moderni panteisti, un monista ateo per il quale unica realtà è la natura. Gli rispose il teologo deista John Toland, che conosceva lo Spaccio della bestia trionfante e lodava in Bruno la serietà scientifica e il coraggio dimostrato nell'aver eliminato dalla speculazione filosofica ogni riferimento alle religioni positive; segnala lo Spaccio a Leibniz - che tuttavia considera Bruno un mediocre filosofo - e al de La Croze, convinto dell'ateismo di Bruno. Con quest'ultimo concorda il Budde, mentre Christoph August Heumann ritorna erroneamente a ipotizzare un protestantesimo di Bruno.
Con l'Illuminismo, l'interesse e la notorietà di Bruno aumenta: il matematico tedesco Johann Friedrich Weidler conosce il De immenso e lo Spaccio, mentre Jean Sylvain Bailly lo definisce «ardito e inquieto, amante delle novità e schernitore delle tradizioni», ma gli rimprovera la sua irreligiosità. In Italia Giordano Bruno è molto apprezzato da Matteo Barbieri, autore di una Storia dei matematici e filosofi del Regno di Napoli, dove afferma che Bruno «scrisse molte cose sublimi nella Metafisica, e molte vere nella Fisica e nell'Astronomia» e ne fa un precursore della teoria dell'armonia prestabilita di Leibniz e di tanta parte delle teorie di Cartesio: «Il sistema dei vortici di Cartesio, o quei globuli giranti intorno i loro centri nell'aere, e tutto il sistema fisico è di Bruno. Il principio di dubitazione saviamente da Cartesio introdotto nella filosofia a Bruno si deve, e molte altre cose nella filosofia di Cartesio sono di Bruno».
Questa tesi è negata dall'abate Niceron per il quale il razionalista Cartesio nulla può aver preso dal Bruno, irreligioso e ateo come Spinoza, che ha identificato Dio con la natura, è rimasto legato alla filosofia del Rinascimento credendo ancora nella magia e, per quanto ingegnoso, è spesso contorto e oscuro. Johann Jacob Brucker concorda con l'incompatibilità di Cartesio con Bruno, che egli considera un filosofo molto complesso, posto tra il monismo spinoziano e il neopitagorismo, la cui concezione dell'universo consisterebbe nella sua creazione per emanazione da un'unica fonte infinita, dalla quale la natura creata non cesserebbe di dipendere.
Fu Diderot a scrivere per l' Enciclopedia la voce su Bruno, da lui considerato precursore di Leibniz - nell'armonia prestabilita, nella teoria della monade, nella ragione sufficiente - e di Spinoza, il quale, come Bruno, concepisce Dio come essenza infinita nella quale libertà e necessità coincidono: rispetto a Bruno «pochi sarebbero i filosofi paragonabili, se l'impeto della sua immaginazione gli avesse permesso di ordinare le proprie idee, unendole in un ordine sistematico, ma egli era nato poeta». Per Diderot, Bruno, che si è sbarazzato della vecchia filosofia aristotelica, è con Leibniz e Spinoza il fondatore della filosofia moderna.
Nel 1789 Jacobi pubblica per la prima volta ampi estratti in tedesco del De la causa, principio et uno di «questo oscuro scrittore», che aveva però saputo dare un «disegno netto e bello del panteismo». Lo spiritualista Jacobi non condivide certo il panteismo ateo di Bruno e Spinoza, di cui ritiene inevitabili le contraddizioni, ma non manca di riconoscerne la grande importanza nella storia della filosofia moderna. Da Jacobi, nel 1802, Schelling trae spunto per il suo dialogo su Bruno, al quale riconosce di aver colto quello che per lui è il fondamento della filosofia: l'unità del Tutto, l'Assoluto, nel quale successivamente si conoscono le singole cose finite. Hegel conosce Bruno di seconda mano e nelle sue Lezioni presenta la sua filosofia come l'attività dello spirito che assume «disordinatamente» tutte le forme, realizzandosi nella natura infinita: «È un gran punto, per cominciare, quello di pensare l'unità; l'altro punto fu cercare di comprendere l'universo nel suo svolgimento, nel sistema delle sue determinazioni, mostrando come l'esteriorità sia segno delle idee».
In Italia, è l'hegeliano Bertrando Spaventa a vedere nel Bruno il precursore di Spinoza, anche se il filosofo nolano oscilla nello stabilire un chiaro rapporto fra la natura e Dio, che appare ora identificarsi con la natura e ora mantenersi come principio sovramondano, osservazioni riprese da Francesco Fiorentino, mentre il suo allievo Felice Tocco mostra come Bruno, pur dissolvendo Dio nella natura, non abbia rinunciato a una valutazione positiva della religione, concepita come utile educatrice dei popoli.
Nel primo decennio del Novecento si completa in Italia l'edizione di tutte le opere e si accelerano gli studi biografici su Giordano Bruno, con particolare riguardo al processo. Per Giovanni Gentile Bruno, oltre a essere un martire della libertà di pensiero, ha avuto il grande merito di dare un'impronta strettamente razionale, e dunque moderna, alla sua filosofia, trascurando misticismi medievaleggianti e suggestioni magiche. Opinione, quest'ultima, discutibile, come recentemente ha inteso mettere in luce la studiosa inglese Frances Yates, presentando Bruno nelle vesti di un autentico ermetico.
Mentre Nicola Badaloni ha rilevato come l'ostracismo decretato contro il Bruno abbia contribuito a emarginare l'Italia dalle innovative correnti della grande filosofia del Seicento europeo, fra i maggiori e più assidui contributi nella definizione della filosofia bruniana si contano attualmente quelli portati dagli studiosi Giovanni Aquilecchia e Michele Ciliberto.
Curiosità
- Frances Yates si chiese, nel testo Giordano Bruno e la tradizione ermetica, quanto la figura e il ruolo del mago che Shakespeare presenta con Prospero, ne La tempesta, fosse influenzata dalla formulazione del ruolo del mago attuata da Giordano Bruno.
- Gli è stato dedicato un cratere lunare, Giordano Bruno e un asteroide, 5148 Giordano.
- Il letterato Mario Rapisardi gli dedicò un'epigrafe:
« Catania - All'ipocrisia volpeggiante fra la scuola e la sagrestia, ai conciliatori della scienza col sillabo, all'imbestiato borghesume, che tutto falsando e trafficando, d'ogni sacrificio eroico beatamente sogghigna, le coscienze, cui sorride ancora la fede nel trionfo di tutte le umane libertà, lanciano oggi ad una voce dalle università Italiane una sfida solenne a gloria della tua virtù, a vendetta del tuo martirio o GIORDANO BRUNO. » |
- Nel piccolo centro abitato di Monsampolo del Tronto, paesino in provincia di Ascoli Piceno, è possibile trovare un grande bassorilievo dedicato a Giordano Bruno, su cui si trova il ritratto del dominicano ed una iscrizione contenente un passo tratto dalle sue scritture. L'irriverente opera fu realizzata da un gruppo di giovani del paese, i quali erano rimasti indignati quando l'allora parroco si era mostrato felice all'apprendere dell'esecuzione del frate. Il bassorilievo fu applicato sulla facciata del palazzo situato proprio di fronte alla principale chiesa del paese, dedicata a Maria Santissima Assunta.
- Dal 2004 a Roma l'UAAR nella piazza Campo de' Fiori commemora l'anniversario della sua morte avvenuta 17 febbraio 1600.
- La piazza di Roma Campo de' fiori è l'unica piazza antica della capitale in cui non compaia una chiesa.
- Nel 2011 nel singolo Sono il tuo sogno eretico tratto dall'album Il sogno eretico, Caparezza dedica al filosofo la terza delle tre mini-storie presenti nella canzone (le altre due parlano di Savonarola e Giovanna D'Arco).
- L'8 Marzo 2012 l'organizzazione "Anonymous" in seguito a un'opera di hackeraggio ai danni del sito del Vaticano chiede le scuse formali da parte della Chiesa per le accuse mosse al filosofo e per la condanna a morte.
Giordano Bruno nel cinema
- Il filosofo è protagonista nel film di Giuliano Montaldo Giordano Bruno del 1973 nel quale è stato interpretato da Gian Maria Volontè.
- Giordano Bruno compare anche nel film Galileo del 1969 di Liliana Cavani.
- Negli anni novanta Rai Uno produce un film documentario curato da Gabriele La Porta su Giordano Bruno; il filosofo è interpretato dall'attore Ugo De Vita.
- Nel film Caravaggio con Alessio Boni c'è una scena in cui è mostrato il rogo di Giordano Bruno solo che contrariamente alle fonti che parlano di Bruno con la mordacchia "la lingua in giova" per non pronunciare eresie e bestemmie, il filosofo viene visto legato al palo mentre poco prima delle fiamme incita la gente a non lasciarsi irretire dai falsi maestri.
- La commedia Candelaio di Giordano Bruno è al centro della fiction Il tredicesimo apostolo - Il prescelto trasmessa dal 2012 su Canale 5.
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