ROMA - Chiara è il prototipo della milanese bene. Marito ricco, due figli, bella casa, donna di servizio, autista. Niente colazione o cena da preparare, nessun bambino da accompagnare a scuola, e lo shopping come unico lavoro.
Ma quando il marito muore lasciandola senza un centesimo, e nemmeno un grande amore da ricordare, lei è costretta a convivere con i genitori del marito. E tutto si sgretola. Chiara è sola, senza progetti né aspettative. Finché non ritrova la passione e una ragione di vita nel fratello del marito, amato tanti anni prima... Chiara è l’ultimo personaggio interpretato da Stefania Rocca in Una grande famiglia, la serie di Ivan Cotroneo diretta da Riccardo Milani conclusasi ieri sera su Raiuno e campione d’ascolti della stagione.
«Riccardo Milani è la mia famiglia creativa», racconta Stefania, scrocchiazzeppi ma decolleté morbido e seducente, sguardo febbrile, profondo, spiazzante. Una ragazzina di quarant’anni ossuta e sexy, irrequieta, anticonformista, che non è cambiata nemmeno dopo la maternità, «mi sento più responsabile, ma nel profondo sono la stessa impulsiva di sempre. Mi annoia quello che facevo a diciott’anni, ma credo che diversi nel tempo diventino i ritmi, le cose, non noi». Una torinese ribelle e determinata che da quando è mamma vive a Milano («mi è preso un colpo quando ci ho messo piede, capirai, una città borghese per me che ero una zingara»), che ha conquistato il cinema italiano (Salvatores, Negri, Verdone, Comencini), francese (Aknine, Provost), americano (Minghella, Abel Ferrara, Young) e la tv di qualità (Zaccaro, Diana, Von Trotta, Milani).
Che cosa significa oggi la famiglia?
«E’ il punto di riferimento di sempre, nonostante, o forse proprio a causa della crisi, e la serie di Milani la ha rivalutata. La famiglia è quella cosa che non si cerca quando si ha e viceversa. Io me ne sono costruita una, diversa da quella d’origine nella quale rifiutavo quelle regole che invece sono fondamentali, ma te ne rendi conto sempre dopo».
Come ha vissuto Chiara?
«Come tutti gli altri personaggi. Nel momento in cui li scelgo entro dentro di loro, non li giudico. E mentre li vivo li scopro fino ad avere lo stesso sguardo. Quando ho interpretato la cieca della Bestia nel cuore, ho lavorato giorni e giorni come assistente volontaria in un centro per non vedenti. Mi sono bendata gli occhi, ho mangiato al buio, ho imparato a riconoscere i luoghi dal suono dell’acqua di una fontana, dal traffico, dai silenzi. I primi giorni avevo la nausea, è come fluttuare in una bolla d’aria, poi i sensi si acuiscono e riesci a trovare l’equilibrio. Ma l’impatto è stato forte anche con Mafalda di Savoia, in un campo di concentramento che faceva stare male anche da lontano, con i topi che mi passeggiavano addosso, mi uscivano dalle tasche. Quando esco da ruoli di questo genere, mi ci vuole tempo per riprendermi, in fondo ogni volta è come tornare da un viaggio estenuante».
Si ritiene ancora un’incosciente?
«Continuo a buttarmi. Se sto più un secondo sul bordo di una piscina, non resisto, mi tuffo. Non aspetto che accada qualcosa, la provoco. E’ come se camminassi su un filo, ho paura di cadere, ma mi piace il rischio, l’adrenalina. Succede anche nel mio lavoro».
Ossia?
«Quando mi presento al provino per Nirvana, Salvatores mi assegna un personaggio che non riesco a percepire. Lui capisce che qualcosa non va, mi chiede che cosa sia, io rispondo: non lo so fare. Gli dico anche quanto invece sento un altro ruolo, quello di Amina. Penso: ora mi manda a quel paese, invece mi dice. va bene, fai Amina. Un’altra volta, reduce da una tournée in cui avevo interpretato Giovanna d’Arco in teatro, con i capelli a zero, mi presento per una parte nel film di Minghella. Lui mi guarda quasi con schifo e grida: voglio un’attrice mediterranea. Io me ne vado, ma dopo qualche giorno, lenti a contatto scure e parrucca nera, torno. Lui non mi riconosce, mi prende e quando capisce chi sono scoppia a ridere divertito».
Com’è lavorare con gli americani?
«Mi sono sempre trovata bene, hanno un grande rispetto per gli attori, specie per quelli italiani. Anche con i francesi mi piace lavorare. Forse mi piace soprattutto il mio mestiere...».
Il prossimo film?
«Lo inizio tra due settimane, si intitola Il terzo tempo, di Enrico Artale, una storia di rugby, tutta al maschile, tranne me».
Cosa pensa di questa Italia?
«Cerco di non drammatizzare, la crisi si sente anche nell’aria, la gente è rabbiosa quando demoralizzata, ma è inutile piangersi addosso, continuare a ripetere che è un disastro. Dobbiamo reagire. Tornare indietro, risalire la china con coraggio. Recuperare la cultura. E la famiglia...».
Micaela Urbano
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