« "Fanciulle, qual valente cantore tra voi s’aggira, più soave tra tutti, e che più gaie vi rende?" "È un cieco, e dimora nella pietrosa Chio." »
(Pseudo-Omero, Inno ad Apollo)
(gr. ῎Ομηρος) è il nome con cui è tradizionalmente identificato il poeta greco autore dell’Iliade e dell’Odissea — i due massimi poemi epici della letteratura greca antica. Nell’antichità gli erano state attribuite anche altre opere: il poemetto giocoso Batracomiomachia, gli Inni omerici, il poemetto Margite e vari poemi del Ciclo epico.
Il suo nome, probabilmente greco, potrebbe avere diverse spiegazioni etimologiche:
ὁ μὴ ὁρῶν (o mè oròn) "colui che non vede" (la tradizione infatti lo vuole cieco; la cecità ha nell’antichità connotazione sacrale e spesso era simbolo di doti profetiche e di profonda saggezza; molti aedi erano ciechi, anche Demodoco nell’Odissea)
ὃμηρος (òmeros) "l’ostaggio", ma anche "il cieco" (come "persona che si accompagna a qualcuno", da ὁμοῦ ἒρχομαι (omù èrchomai), "vado insieme")
ὁ μὴ ὁρῶν (o mè oròn) "colui che non vede" (la tradizione infatti lo vuole cieco; la cecità ha nell’antichità connotazione sacrale e spesso era simbolo di doti profetiche e di profonda saggezza; molti aedi erano ciechi, anche Demodoco nell’Odissea)
ὃμηρος (òmeros) "l’ostaggio", ma anche "il cieco" (come "persona che si accompagna a qualcuno", da ὁμοῦ ἒρχομαι (omù èrchomai), "vado insieme")
Tradizione biografica
La biografia tradizionale di Omero, tratta dalle fonti antiche, è fantasiosa. I tentativi di costruire una biografia di quello che si è sempre ritenuto il primo poeta greco sono confluiti in un corpus di sette biografie comunemente indicate come Vite di Omero. La più estesa e dettagliata è quella attribuita, con tutta probabilità erroneamente, ad Erodoto, e perciò definita Vita Herodotea. Un’altra biografia molto popolare tra gli antichi autori è quella attribuita, ma erroneamente, a Plutarco. Ad esse si può aggiungere come ottava testimonianza di simili interessi biografici l'anonimo Agone di Omero e Esiodo. Alcune delle genealogie mitiche di Omero tramandate da queste biografie sostenevano che fosse figlio della ninfa Creteide, altre lo volevano discendente di Orfeo, il mitico poeta della Tracia che rendeva mansuete le belve con il suo canto.
Una parte notevolmente importante nella tradizione biografica di Omero verteva intorno alla questione della sua patria. Nell'antichità ben sette città si contendevano il diritto di aver dato i natali a Omero: prime tra tutte Chio, Smirne e Colofone, poi Atene, Argo, Rodi e Salamina. La maggioranza di queste città si trova nell'Asia minore, e precisamente nella Ionia. In effetti, la lingua di base dell’Iliade è il dialetto ionico: questo dato attesta però soltanto che la formazione dell’epica è probabilmente da collocarsi non nella Grecia propriamente detta, ma nelle colonie ioniche della costa turca, e non ci dice nulla sulla reale esistenza di Omero, né tanto meno sulla sua provenienza.
L’Iliade contiene anche, oltre alla base ionica, molti eolismi (termini eolici). Pindaro suggerisce perciò che la patria di Omero potrebbe essere Smirne: una città sulla costa nord dell’attuale Turchia, abitata appunto sia da Ioni che da Eoli. Quest’ipotesi è stata però privata del suo fondamento quando gli studiosi si sono resi conto che molti di quelli che venivano considerati eolismi erano in realtà parole achee.
Secondo Simonide, invece, Omero era di Chio; di certo sappiamo solo che nella stessa Chio c’era un gruppo di rapsodi che si definivano “Omeridi”. Inoltre, in uno tra i tanti inni a divinità che vennero attribuiti ad Omero, l’Inno ad Apollo, l'autore definisce se stesso “uomo cieco che abita nella rocciosa Chio”. Accettando dunque come scritto da Omero l’Inno ad Apollo, si spiegherebbero sia la rivendicazione dei natali del cantore da parte di Chio, sia l'origine del nome (da ὁ μὴ ὁρῶν, ho mē horōn, il cieco). Erano queste, probabilmente, le basi della convinzione di Simonide. Tuttavia, entrambe le affermazioni, quella di Pindaro e quella di Simonide, mancano di prove concrete.
Secondo Erodoto Omero sarebbe vissuto quattrocento anni prima della sua epoca, quindi verso la metà del IX secolo a.C.; in altre biografie Omero risulta invece nato in epoca posteriore, perlopiù verso l'VIII secolo a.C. La contraddittorietà di queste notizie non aveva incrinato nei Greci la convinzione che il poeta fosse veramente esistito, anzi aveva contribuito a farne una figura mitica, il poeta per eccellenza.
Anche sul significato del nome di Omero si sviluppò la discussione. Nelle Vite, si dice che il vero nome di Omero sarebbe stato Melesigene, cioè (secondo l’interpretazione contenuta nella Vita Herodotea) “nato presso il fiume Meleto”. Il nome Omero sarebbe quindi un soprannome: tradizionalmente lo si faceva derivare o da ὁ μὴ ὁρῶν (il cieco), oppure da ὅμηρος (homēros, che significherebbe ostaggio).
Inevitabilmente un’ulteriore discussione si accese sul rapporto cronologico esistente tra Omero e l’altro cardine della poesia greca, Esiodo. Come si può vedere dalle Vite, c'era sia chi pensava che Omero fosse vissuto in età anteriore ad Esiodo, sia chi riteneva che fosse invece più giovane, e anche chi li voleva contemporanei. Nel già citato Agone si racconta di una gara poetica tra Omero e Esiodo, indetta in occasione dei funerali di Anfidamante, re dell'isola di Eubea. Al termine della gara, Esiodo lesse un passo delle Opere e Giorni dedicato alla pace e all’agricoltura, Omero uno dell’Iliade consistente in una scena di guerra. Per questo il re Panede, fratello del morto Anfidamante, assegnò la vittoria ad Esiodo. Sicuramente, in ogni caso, questa leggenda è del tutto priva di fondamento.
Sostanzialmente, in conclusione, nessuno dei dati fornitici dalla tradizione biografica antica ci consente affermazioni anche solo possibili per stabilire la reale esistenza storica di Omero. Anche per queste ragioni, oltre che sulla base di considerazioni approfondite sulla probabile composizione orale dei poemi (cfr. più sotto), la critica ha ormai da tempo quasi generalmente concluso che non sia mai esistito un distinto autore di nome Omero a cui ricondurre nella loro integrità i due poemi maggiori della letteratura greca.
Una parte notevolmente importante nella tradizione biografica di Omero verteva intorno alla questione della sua patria. Nell'antichità ben sette città si contendevano il diritto di aver dato i natali a Omero: prime tra tutte Chio, Smirne e Colofone, poi Atene, Argo, Rodi e Salamina. La maggioranza di queste città si trova nell'Asia minore, e precisamente nella Ionia. In effetti, la lingua di base dell’Iliade è il dialetto ionico: questo dato attesta però soltanto che la formazione dell’epica è probabilmente da collocarsi non nella Grecia propriamente detta, ma nelle colonie ioniche della costa turca, e non ci dice nulla sulla reale esistenza di Omero, né tanto meno sulla sua provenienza.
L’Iliade contiene anche, oltre alla base ionica, molti eolismi (termini eolici). Pindaro suggerisce perciò che la patria di Omero potrebbe essere Smirne: una città sulla costa nord dell’attuale Turchia, abitata appunto sia da Ioni che da Eoli. Quest’ipotesi è stata però privata del suo fondamento quando gli studiosi si sono resi conto che molti di quelli che venivano considerati eolismi erano in realtà parole achee.
Secondo Simonide, invece, Omero era di Chio; di certo sappiamo solo che nella stessa Chio c’era un gruppo di rapsodi che si definivano “Omeridi”. Inoltre, in uno tra i tanti inni a divinità che vennero attribuiti ad Omero, l’Inno ad Apollo, l'autore definisce se stesso “uomo cieco che abita nella rocciosa Chio”. Accettando dunque come scritto da Omero l’Inno ad Apollo, si spiegherebbero sia la rivendicazione dei natali del cantore da parte di Chio, sia l'origine del nome (da ὁ μὴ ὁρῶν, ho mē horōn, il cieco). Erano queste, probabilmente, le basi della convinzione di Simonide. Tuttavia, entrambe le affermazioni, quella di Pindaro e quella di Simonide, mancano di prove concrete.
Secondo Erodoto Omero sarebbe vissuto quattrocento anni prima della sua epoca, quindi verso la metà del IX secolo a.C.; in altre biografie Omero risulta invece nato in epoca posteriore, perlopiù verso l'VIII secolo a.C. La contraddittorietà di queste notizie non aveva incrinato nei Greci la convinzione che il poeta fosse veramente esistito, anzi aveva contribuito a farne una figura mitica, il poeta per eccellenza.
Anche sul significato del nome di Omero si sviluppò la discussione. Nelle Vite, si dice che il vero nome di Omero sarebbe stato Melesigene, cioè (secondo l’interpretazione contenuta nella Vita Herodotea) “nato presso il fiume Meleto”. Il nome Omero sarebbe quindi un soprannome: tradizionalmente lo si faceva derivare o da ὁ μὴ ὁρῶν (il cieco), oppure da ὅμηρος (homēros, che significherebbe ostaggio).
Inevitabilmente un’ulteriore discussione si accese sul rapporto cronologico esistente tra Omero e l’altro cardine della poesia greca, Esiodo. Come si può vedere dalle Vite, c'era sia chi pensava che Omero fosse vissuto in età anteriore ad Esiodo, sia chi riteneva che fosse invece più giovane, e anche chi li voleva contemporanei. Nel già citato Agone si racconta di una gara poetica tra Omero e Esiodo, indetta in occasione dei funerali di Anfidamante, re dell'isola di Eubea. Al termine della gara, Esiodo lesse un passo delle Opere e Giorni dedicato alla pace e all’agricoltura, Omero uno dell’Iliade consistente in una scena di guerra. Per questo il re Panede, fratello del morto Anfidamante, assegnò la vittoria ad Esiodo. Sicuramente, in ogni caso, questa leggenda è del tutto priva di fondamento.
Sostanzialmente, in conclusione, nessuno dei dati fornitici dalla tradizione biografica antica ci consente affermazioni anche solo possibili per stabilire la reale esistenza storica di Omero. Anche per queste ragioni, oltre che sulla base di considerazioni approfondite sulla probabile composizione orale dei poemi (cfr. più sotto), la critica ha ormai da tempo quasi generalmente concluso che non sia mai esistito un distinto autore di nome Omero a cui ricondurre nella loro integrità i due poemi maggiori della letteratura greca.
La questione omerica
L’età antica
I numerosi problemi relativi alla reale esistenza storica di Omero e alla composizione dei due poemi diedero origine a quella che si è soliti definire "questione omerica", che per secoli ha cercato di stabilire se fosse mai realmente esistito un poeta di nome Omero e quali opere, tra tutte quelle legate alla sua figura, gli si potessero eventualmente attribuire; o, in alternativa, quale sia stato il processo di composizione dell’Iliade e dell’Odissea. La paternità della questione viene tradizionalmente attribuita a tre studiosi: François Hédelin abate d'Aubignac (1604-1676), Giambattista Vico (1668-1744) e soprattutto Friedrich August Wolf (1759-1824).
I dubbi intorno ad Omero e alla reale entità della sua produzione sono però ben più antichi. Già Erodoto, in un passo della sua storia delle guerre persiane (2, 116-7), dedica una breve digressione alla questione della paternità omerica dei Cypria, concludendo, in base a incongruenze narrative con l’Iliade, che essi non possano essere opera di Omero, ma debbano essere attribuiti ad un altro poeta.
La prima testimonianza relativa ad una redazione complessiva, nella forma dei due poemi, dei vari canti prima diffusi separatamente risale fino al VI secolo a.C., ed è legata al nome di Pisistrato, tiranno di Atene tra il 561 e il 527 a.C. Dice infatti Cicerone nel suo De Oratore: “primus Homeri libros confusos antea sic disposuisse dicitur, ut nunc habemus” (Si dice che Pisistrato per primo avesse ordinato i libri di Omero, prima confusi, così come ora li abbiamo). È stata così sostenuta un’ipotesi secondo cui nella biblioteca che, stando ad alcune fonti, Pisistrato avrebbe organizzato ad Atene fosse contenuta l’Iliade di Omero, fatta realizzare dal figlio Ipparco. Tuttavia, la tesi della cosiddetta "redazione pisistratea" è stata screditata, così come l’esistenza stessa di una biblioteca ad Atene nel VI secolo a.C.: il filologo italiano Giorgio Pasquali affermava che, supponendo l’esistenza di una biblioteca ad Atene in quel periodo, non si vede cosa avrebbe potuto contenere, per il numero ancora relativamente ridotto di opere prodotte e per l’uso non ancora preminente della scrittura a cui affidarle.
Una parte dei critici antichi, rappresentata soprattutto dai due grammatici Xenone ed Ellanico, noti come i χωρίζοντες (chorizontes, ovvero "separatisti"), confermavano invece l’esistenza di Omero, ma ritenevano che non tutti e due i poemi fossero da ricondurre a lui, e perciò gli attribuivano unicamente l’Iliade, mentre ritenevano l’Odissea composta oltre cent’anni dopo da un ignoto aedo.
Nell’antichità furono soprattutto Aristotele e i grammatici alessandrini a occuparsi della questione. Il primo affermava l'esistenza di Omero, ma, tra tutte le opere legate al suo nome, gli attribuiva la composizione soltanto di Iliade, Odissea e Margite. Fra gli alessandrini, i grammatici Aristofane di Bisanzio e Aristarco di Samotracia formularono l’ipotesi destinata a restare la più diffusa fino all’avvento dei filologi oralisti. Essi sostenevano l’esistenza di Omero e gli attribuivano soltanto l’Iliade e l’Odissea; inoltre, sistemarono le due opere nella versione che possediamo oggi e ne espunsero i passi a loro dire corrotti e integrarono alcuni versi.
Una precisazione della tesi di Aristarco si può considerare la conclusione, dovuta a ragioni stilistiche, a cui giunge l’anonimo del Sublime, secondo cui Omero avrebbe composto l’Iliade in giovane età e l’Odissea da vecchio.
I dubbi intorno ad Omero e alla reale entità della sua produzione sono però ben più antichi. Già Erodoto, in un passo della sua storia delle guerre persiane (2, 116-7), dedica una breve digressione alla questione della paternità omerica dei Cypria, concludendo, in base a incongruenze narrative con l’Iliade, che essi non possano essere opera di Omero, ma debbano essere attribuiti ad un altro poeta.
La prima testimonianza relativa ad una redazione complessiva, nella forma dei due poemi, dei vari canti prima diffusi separatamente risale fino al VI secolo a.C., ed è legata al nome di Pisistrato, tiranno di Atene tra il 561 e il 527 a.C. Dice infatti Cicerone nel suo De Oratore: “primus Homeri libros confusos antea sic disposuisse dicitur, ut nunc habemus” (Si dice che Pisistrato per primo avesse ordinato i libri di Omero, prima confusi, così come ora li abbiamo). È stata così sostenuta un’ipotesi secondo cui nella biblioteca che, stando ad alcune fonti, Pisistrato avrebbe organizzato ad Atene fosse contenuta l’Iliade di Omero, fatta realizzare dal figlio Ipparco. Tuttavia, la tesi della cosiddetta "redazione pisistratea" è stata screditata, così come l’esistenza stessa di una biblioteca ad Atene nel VI secolo a.C.: il filologo italiano Giorgio Pasquali affermava che, supponendo l’esistenza di una biblioteca ad Atene in quel periodo, non si vede cosa avrebbe potuto contenere, per il numero ancora relativamente ridotto di opere prodotte e per l’uso non ancora preminente della scrittura a cui affidarle.
Una parte dei critici antichi, rappresentata soprattutto dai due grammatici Xenone ed Ellanico, noti come i χωρίζοντες (chorizontes, ovvero "separatisti"), confermavano invece l’esistenza di Omero, ma ritenevano che non tutti e due i poemi fossero da ricondurre a lui, e perciò gli attribuivano unicamente l’Iliade, mentre ritenevano l’Odissea composta oltre cent’anni dopo da un ignoto aedo.
Nell’antichità furono soprattutto Aristotele e i grammatici alessandrini a occuparsi della questione. Il primo affermava l'esistenza di Omero, ma, tra tutte le opere legate al suo nome, gli attribuiva la composizione soltanto di Iliade, Odissea e Margite. Fra gli alessandrini, i grammatici Aristofane di Bisanzio e Aristarco di Samotracia formularono l’ipotesi destinata a restare la più diffusa fino all’avvento dei filologi oralisti. Essi sostenevano l’esistenza di Omero e gli attribuivano soltanto l’Iliade e l’Odissea; inoltre, sistemarono le due opere nella versione che possediamo oggi e ne espunsero i passi a loro dire corrotti e integrarono alcuni versi.
Una precisazione della tesi di Aristarco si può considerare la conclusione, dovuta a ragioni stilistiche, a cui giunge l’anonimo del Sublime, secondo cui Omero avrebbe composto l’Iliade in giovane età e l’Odissea da vecchio.
La nuova formulazione moderna della questione
« La poesia viva, quella che dà vita a tutto ciò che tocca, è di tutti i tempi e di tutti i paesi, e per questa qualità divina il poeta più moderno di tutti i tempi è Omero »
(Mario Rapisardi)
Simili discussioni ricevettero uno scossone con la composizione dell’opera dell’abate d’Aubignac Conjectures académiques ou dissertation sur l’Iliade (1664, ma pubblicata postuma nel 1715), in cui si sosteneva che Omero non fosse mai esistito, e che i poemi come noi li leggiamo siano il frutto di un'operazione redazionale che avrebbe riunito in un unico testo episodi epici originariamente isolati.
In questa nuova fase della critica omerica, la posizione di Giambattista Vico, che solo in epoca recente è entrata a far parte della storia della “questione omerica”, riveste in realtà un ruolo importantissimo. Proprio nel capitolo della Scienza Nuova (ultima edizione del 1744) dedicato a “la discoverta del vero Omero” si ha infatti la prima formulazione dell’oralità originaria della composizione e della trasmissione dei poemi. In Omero, secondo Vico (come già aveva affermato d'Aubignac, che Vico non conosceva), non bisogna riconoscere una reale figura storica di poeta, ma una personificazione della facoltà poetica del popolo greco.
Nel 1788 vengono infine pubblicati da Jean-Baptiste-Gaspard d'Ansse de Villoison gli scolii omerici contenuti a margine del più importante manoscritto dell’Iliade, il Veneto Marciano A, che costituiscono una fonte fondamentale di conoscenze sull'attività critica compiuta sui poemi in età ellenistica. Lavorando su questi scolii, Friedrich August Wolf nei celebri Prolegomena ad Homerum tracciò per la prima volta la storia del testo omerico qual è ricostruibile per il periodo che va da Pisistrato fino all'epoca alessandrina. Spingendosi poi ancora più indietro, Wolf avanzò nuovamente l'ipotesi che già era stata di Vico e di d'Aubignac, sostenendo l'originaria composizione orale dei poemi, che poi sarebbero stati trasmessi sempre oralmente almeno fino al V secolo a.C.
(Mario Rapisardi)
Simili discussioni ricevettero uno scossone con la composizione dell’opera dell’abate d’Aubignac Conjectures académiques ou dissertation sur l’Iliade (1664, ma pubblicata postuma nel 1715), in cui si sosteneva che Omero non fosse mai esistito, e che i poemi come noi li leggiamo siano il frutto di un'operazione redazionale che avrebbe riunito in un unico testo episodi epici originariamente isolati.
In questa nuova fase della critica omerica, la posizione di Giambattista Vico, che solo in epoca recente è entrata a far parte della storia della “questione omerica”, riveste in realtà un ruolo importantissimo. Proprio nel capitolo della Scienza Nuova (ultima edizione del 1744) dedicato a “la discoverta del vero Omero” si ha infatti la prima formulazione dell’oralità originaria della composizione e della trasmissione dei poemi. In Omero, secondo Vico (come già aveva affermato d'Aubignac, che Vico non conosceva), non bisogna riconoscere una reale figura storica di poeta, ma una personificazione della facoltà poetica del popolo greco.
Nel 1788 vengono infine pubblicati da Jean-Baptiste-Gaspard d'Ansse de Villoison gli scolii omerici contenuti a margine del più importante manoscritto dell’Iliade, il Veneto Marciano A, che costituiscono una fonte fondamentale di conoscenze sull'attività critica compiuta sui poemi in età ellenistica. Lavorando su questi scolii, Friedrich August Wolf nei celebri Prolegomena ad Homerum tracciò per la prima volta la storia del testo omerico qual è ricostruibile per il periodo che va da Pisistrato fino all'epoca alessandrina. Spingendosi poi ancora più indietro, Wolf avanzò nuovamente l'ipotesi che già era stata di Vico e di d'Aubignac, sostenendo l'originaria composizione orale dei poemi, che poi sarebbero stati trasmessi sempre oralmente almeno fino al V secolo a.C.
Analitici e unitari
Le conclusioni di Wolf secondo cui i poemi omerici non sarebbero opera di un singolo poeta, ma di più autori che operavano oralmente, portarono la critica a orientarsi in due schieramenti. La prima a svilupparsi fu la cosiddetta critica analitica o separatista: sottoponendo i poemi ad una capillare indagine linguistica e stilistica, gli analitici si proponevano di individuare tutte le eventuali cesure interne ai due poemi con lo scopo di riconoscere le personalità dei diversi autori di ogni episodio. I principali analitici (chorizontes) furono: Gottfried Hermann (1772-1848), secondo cui i due poemi omerici deriverebbero da due nuclei originali ("Ur-Ilias", intorno all'ira di Achille, e "Ur-Odyssee", incentrata sul ritorno di Odisseo), a cui sarebbero state fatte aggiunte ed ampliamenti; Karl Lachmann (1793-1851), le cui teorie trovano una certa analogia con quelle di Hédelin d'Aubignac, secondo cui la Iliade sarebbe composta da 16 canti popolari riuniti e poi trascritti per ordine di Pisistrato (Kleinliedertheorie); Adolf Kirchoff, che, studiando l'Odissea, teorizzò che fosse composta da tre poemi indipendenti (la Telemachia, il νόστος o viaggio di ritorno di Ulisse e l'arrivo in patria); Ulrich von Wilamowitz Moellendorff (1848-1931), il quale sosteneva che Omero avesse raccolto e rielaborato dei canti tradizionali, organizzandoli attorno ad un unico tema.
A questo indirizzo della critica si opposero naturalmente le posizioni di quegli studiosi che, come Wolfgang Schadewaldt, credevano di poter trovare nei vari rimandi interni ai poemi, nei procedimenti di anticipazione di episodi non ancora avvenuti, nella distribuzione dei tempi e nella struttura dell'azione le prove di un'unità d'origine nella concezione delle due opere. I due poemi sarebbero stati composti fin dall'inizio in modo unitario, con una struttura ben congegnata e una serie di episodi appositamente predisposti in vista di un fine, senza con ciò negare eventuali inserzioni avvenute in seguito, nel corso dei secoli e col procedere delle recitazioni. È senz'altro significativo che proprio Schadewaldt, uno degli esponenti principali della corrente unitaria, abbia anche dato fede al nucleo centrale, se non ai singoli dettagli narrativi, delle Vite omeriche, cercando di estrapolare la verità dalla leggenda e di ricostruire una figura di Omero storicamente verosimile.
A questo indirizzo della critica si opposero naturalmente le posizioni di quegli studiosi che, come Wolfgang Schadewaldt, credevano di poter trovare nei vari rimandi interni ai poemi, nei procedimenti di anticipazione di episodi non ancora avvenuti, nella distribuzione dei tempi e nella struttura dell'azione le prove di un'unità d'origine nella concezione delle due opere. I due poemi sarebbero stati composti fin dall'inizio in modo unitario, con una struttura ben congegnata e una serie di episodi appositamente predisposti in vista di un fine, senza con ciò negare eventuali inserzioni avvenute in seguito, nel corso dei secoli e col procedere delle recitazioni. È senz'altro significativo che proprio Schadewaldt, uno degli esponenti principali della corrente unitaria, abbia anche dato fede al nucleo centrale, se non ai singoli dettagli narrativi, delle Vite omeriche, cercando di estrapolare la verità dalla leggenda e di ricostruire una figura di Omero storicamente verosimile.
L'ipotesi oralistica
Almeno nei termini i in cui era tradizionalmente formulata, la questione omerica è lontana dall'essere risolta, perché in realtà è probabilmente insolubile. Nel secolo scorso, le domande ormai classiche intorno a cui si era fino allora imperniata la questione omerica cominciarono in effetti a perdere di senso di fronte ad una nuova impostazione del problema resa possibile dagli studi sui processi di composizione dell'epica nelle culture pre-letterarie effettuati sul campo da alcuni studiosi americani.
Il pioniere di questi studi, ed il principale tra quelli che vengono definiti "filologi oralisti", fu Milman Parry, studioso americano, che formulò la prima versione della sua teoria in L'epithète traditionelle dans Homère. Essai sur un problème de style homérique (1928). Nella teoria di Parry (che non era specificamente un omerista), auralità e oralità sono la chiave di lettura: gli aedi avrebbero cantato improvvisando, o meglio impostato elementi via via innovativi su di una matrice standard; oppure avrebbero declamato al pubblico dopo aver composto in forma scritta. Ebbene Parry ipotizzò un primo momento in cui i due testi dovettero circolare di bocca in bocca, da padre in figlio, esclusivamente in forma orale; successivamente per esigenze pratiche ed evolutive intervenne qualcuno ad unificare, quasi "cucendoli", i vari tessuti dell'epos omerico, e questo qualcuno potrebbe essere un Omero realmente vissuto o un'équipe rapsodica specializzata sotto il nome "Omero". Il centro della ricerca di Parry riguarda, come dichiara il titolo del suo saggio, l'epiteto tradizionale epico, cioè l'attributo che accompagna il nome nei testi omerici (“piè veloce Achille”, per esempio), che viene studiato nel contesto del nesso formulare che l'insieme nome-epiteto determina. Le conclusioni cardine della teoria di Parry si possono così riassumere:
l'epiteto è fisso ed il suo utilizzo è determinato non dal suo significato, ma dal valore metrico che la coppia nome-epiteto viene ad assumere nel verso;
l'epiteto ha funzione esclusivamente ornamentale: non aggiunge cioè al nome che accompagna una specificazione necessaria, e spesso nemmeno coerente con le caratteristiche del personaggio che qualifica (Menelao, ad esempio, è costantemente definito nell'Iliade “forte nel grido” anche se non grida mai, e allo stesso modo personaggi moralmente negativi possono essere qualificati con l'aggettivo “valoroso”);
l'epiteto è tradizionale, cioè fanno parte di un repertorio d'uso a disposizione dei poeti, che non hanno perciò bisogno di crearne di nuovi, ma attingono ad una preesistente tradizione di aedi.
I principi così costituiti della tradizionalità e della formularità della dizione epica portano Parry a pronunciarsi sulla questione omerica, distruggendone i presupposti in nome dell'unica certezza che un simile studio formulare dei poemi consente di raggiungere: nella loro struttura, l'Iliade e l'Odissea sono assolutamente arcaici, ma questo ci permette solo di affermare che essi rispecchiano una tradizione consolidata di aedi. Questo giustifica la somiglianza stilistica esistente tra i due poemi. Non ci consente però di dire nulla di certo sul loro autore, né su quanti possano esserne stati gli autori.
Subito le tesi di Parry vennero estese su un campo più ampio della coppia nome-epiteto. Walter Arend, in un celebre libro del 1933 (Die typischen Szenen bei Homer), riproponendo le tesi di Parry, notava che non solamente ci sono delle ripetizioni di segmenti metrici, ma anche scene fisse o tipiche (discesa dalla nave, descrizione dell'armatura, morte dell'eroe, etc.), vale a dire scene che si ripetono letteralmente ogni volta che si ripresenta un identico contesto nella narrazione. Individuò quindi dei canoni compositivi globali, che avrebbero organizzato l'intera narrazione: il catalogo, la ring composition e lo schidione.
Infine, Eric Havelock ipotizzò che l'opera omerica fosse in realtà un'enciclopedia tribale: i racconti sarebbero serviti ad insegnare la morale o trasmettere la conoscenza e quindi l'opera avrebbe dovuto essere costruita secondo una struttura educativa.
Il pioniere di questi studi, ed il principale tra quelli che vengono definiti "filologi oralisti", fu Milman Parry, studioso americano, che formulò la prima versione della sua teoria in L'epithète traditionelle dans Homère. Essai sur un problème de style homérique (1928). Nella teoria di Parry (che non era specificamente un omerista), auralità e oralità sono la chiave di lettura: gli aedi avrebbero cantato improvvisando, o meglio impostato elementi via via innovativi su di una matrice standard; oppure avrebbero declamato al pubblico dopo aver composto in forma scritta. Ebbene Parry ipotizzò un primo momento in cui i due testi dovettero circolare di bocca in bocca, da padre in figlio, esclusivamente in forma orale; successivamente per esigenze pratiche ed evolutive intervenne qualcuno ad unificare, quasi "cucendoli", i vari tessuti dell'epos omerico, e questo qualcuno potrebbe essere un Omero realmente vissuto o un'équipe rapsodica specializzata sotto il nome "Omero". Il centro della ricerca di Parry riguarda, come dichiara il titolo del suo saggio, l'epiteto tradizionale epico, cioè l'attributo che accompagna il nome nei testi omerici (“piè veloce Achille”, per esempio), che viene studiato nel contesto del nesso formulare che l'insieme nome-epiteto determina. Le conclusioni cardine della teoria di Parry si possono così riassumere:
l'epiteto è fisso ed il suo utilizzo è determinato non dal suo significato, ma dal valore metrico che la coppia nome-epiteto viene ad assumere nel verso;
l'epiteto ha funzione esclusivamente ornamentale: non aggiunge cioè al nome che accompagna una specificazione necessaria, e spesso nemmeno coerente con le caratteristiche del personaggio che qualifica (Menelao, ad esempio, è costantemente definito nell'Iliade “forte nel grido” anche se non grida mai, e allo stesso modo personaggi moralmente negativi possono essere qualificati con l'aggettivo “valoroso”);
l'epiteto è tradizionale, cioè fanno parte di un repertorio d'uso a disposizione dei poeti, che non hanno perciò bisogno di crearne di nuovi, ma attingono ad una preesistente tradizione di aedi.
I principi così costituiti della tradizionalità e della formularità della dizione epica portano Parry a pronunciarsi sulla questione omerica, distruggendone i presupposti in nome dell'unica certezza che un simile studio formulare dei poemi consente di raggiungere: nella loro struttura, l'Iliade e l'Odissea sono assolutamente arcaici, ma questo ci permette solo di affermare che essi rispecchiano una tradizione consolidata di aedi. Questo giustifica la somiglianza stilistica esistente tra i due poemi. Non ci consente però di dire nulla di certo sul loro autore, né su quanti possano esserne stati gli autori.
Subito le tesi di Parry vennero estese su un campo più ampio della coppia nome-epiteto. Walter Arend, in un celebre libro del 1933 (Die typischen Szenen bei Homer), riproponendo le tesi di Parry, notava che non solamente ci sono delle ripetizioni di segmenti metrici, ma anche scene fisse o tipiche (discesa dalla nave, descrizione dell'armatura, morte dell'eroe, etc.), vale a dire scene che si ripetono letteralmente ogni volta che si ripresenta un identico contesto nella narrazione. Individuò quindi dei canoni compositivi globali, che avrebbero organizzato l'intera narrazione: il catalogo, la ring composition e lo schidione.
Infine, Eric Havelock ipotizzò che l'opera omerica fosse in realtà un'enciclopedia tribale: i racconti sarebbero serviti ad insegnare la morale o trasmettere la conoscenza e quindi l'opera avrebbe dovuto essere costruita secondo una struttura educativa.
La tradizione manoscritta
L’antichità
L’Iliade e l’Odissea vennero fissate per scritto nella Ionia di Asia, intorno all’VIII secolo a.C.: la scrittura venne introdotta nel 750 a.C. circa; si è supposto che trent’anni dopo, nel 720 a.C., gli aedi(cantori professionisti) potessero già utilizzarla. È probabile che più aedi abbiano cominciato ad usare la scrittura per fissare testi che affidavano completamente alla memoria; la scrittura era null’altro che un nuovo mezzo per agevolare il proprio lavoro, sia per poter lavorare più facilmente sui testi, sia per non dover affidare tutto alla memoria.
Nell’epoca dell’auralità il magma epico cominciò a sedimentarsi nella sua struttura, pur mantenendo una certa fluidità.È probabile che inizialmente ci fossero un grandissimo numero di episodi e sezioni rapsodiche legati al Ciclo Troiano; vari autori, nell’epoca dell’auralità (cioè intorno al 750 a.C. circa) operarono una cernita, scegliendo da questa ingente mole di racconti un numero sempre più esiguo di sezioni, numero che se per Omero fu 24, per altri autori poteva essere 20, o 18, o 26, o anche 50. Quel che è certo è che la versione di Omero si impose sulle altre; benché dopo di lui altri aedi avessero continuato a selezionare continuamente episodi per creare la “loro” Iliade, essi tennero conto che la versione dell’Iliade più in voga era quella di Omero. In sostanza, non tutti gli aedi cantavano la stessa Iliade, e non si arrivò mai ad avere un testo standard per tutti; c’erano una miriade di testi simili tra loro, ma con leggere differenze.
Durante l'auralità, Il poema non ha ancora una struttura definitivamente chiusa.Non possediamo l’originale più antico dell’opera, ma è probabile che già nel VI secolo a.C. ne circolassero degli esemplari.
L’auralità non consentì di stabilire delle edizioni canoniche. Dagli scolii omerici abbiamo notizia di edizioni dei poemi preparate dalle singole città e dette perciò κατὰ πόλεις (kata poleis): Creta, Cipro, Argo e Marsiglia avevano ciascuna la sua versione locale dei poemi di Omero. Le varie edizioni κατὰ πόλεις non erano probabilmente molto discordanti tra di loro. Abbiamo anche notizia di edizioni precedenti all’ellenismo, dette πολυστικός, “con molti versi”; queste edizioni si caratterizzavano per un numero di versi maggiore di sezioni rapsodiche rispetto alla vulgata alessandrina; varie fonti ce ne parlano, ma non ne conosciamo l’origine.
Oltre a queste edizioni approntate dalle diverse città, sappiamo anche dell’esistenza di edizioni κατ'ἄνδρα (kat'andra), cioè preparate da singoli individui per personaggi illustri che desideravano avere delle edizioni proprie. Un esempio celebre è quello di Aristotele, che si fece creare un’edizione dell’Iliade e dell’Odissea per farla leggere ad Alessandro Magno, suo discepolo, intorno alla fine del IV secolo a.C.
In questo stato di cose, i poemi omerici furono inevitabilmente soggetti ad alterazioni e interpolazioni per quasi quattro secoli prima dell’età alessandrina. I rapsodi, recitando il testo trasmesso per via orale, e quindi non fissato stabilmente, vi potevano inserire o sottrarre parti, invertire l’ordine di certi episodi, accorciarne o ampliarne certi altri. Inoltre, poiché l’Iliade e l’Odissea erano la base dell’insegnamento elementare (generalmente i piccoli greci imparavano a leggere esercitandosi sui poemi di Omero) non è improbabile che i maestri semplificassero i poemi affinché fossero di più facile comprensione per i bambini, anche se la critica recente tende a minimizzare la portata di questi interventi scolastici.Probabilmente più estesi furono gli interventi mirati a correggere alcuni particolari scabrosi appartenenti a usanze e credenze non più in accordo con la mentalità più moderna, specialmente per quanto riguarda l’atteggiamento nei confronti delle divinità. In effetti, fin dall’inizio la rappresentazione eccessivamente terrena degli dèi omerici (litigiosi, lussuriosi e sostanzialmente non estranei ai vari vizi degli uomini) turbò i destinatari più attenti (celebre è soprattutto la critica rivolta alle divinità omeriche da Senofane di Colofone). Gli scolii ci attestano un certo numero di interventi, anche piuttosto cospicui (a volte potevano venire soppresse anche decine di versi consecutivi) intesi proprio a smussare questi aspetti non più compresi o condivisi.
Alcuni studiosi ritengono che, col tempo, si sia arrivati a una sorta di testo base attico, una vulgata attica (la parola vulgata viene usata dagli studiosi in riferimento alla Vulgata di San Girolamo, che all’inizio dell’era cristiana analizzò le varie versioni della Bibbia esistenti e le unificò in un testo latino definitivo, che chiamò appunto vulgata – per il volgo, da divulgare).
Gli antichi grammatici alessandrini tra il III e il II secolo a.C. concentrarono il loro lavoro di filologia del testo su Omero, sia perché il materiale era ancora molto confuso, sia perché egli era universalmente riconosciuto come il padre della letteratura greca. Il lavoro degli alessandrini viene in genere indicato col termine emendatio, versione latina del greco διὼρθωσις, che consisteva nell’eliminare le varie interpolazioni e nel ripulire il poema dai vari versi formulari suppletivi, formule varianti che entravano anche tutte insieme. Si arrivò dunque ad un testo definitivo. Il contributo principale fu quello di tre grandi filologi, vissuti tra la metà del terzo secolo e la metà del secondo: Zenodoto di Efeso forse elaborò la numerazione alfabetica dei libri e quasi sicuramente inventò un segno critico, l’obelos, per indicare i versi a suo parere interpolati; Aristofane di Bisanzio, di cui non ci resta nulla, ma pare fosse stato un gran commentatore, inserì il prosodio, i segni critici (come la crux) e gli spiriti; Aristarco di Samotracia operò un'ampia (e oggi considerata eccessiva) atticizzazione, dal momento che egli era convinto che Omero fosse di Atene, e si occupò di scegliere una lezione per ogni vocabolo “dubbio”, curandosi anche di mettere un obelos con le altre lezioni scartate; non è ancora chiaro in quale misura si sia basato sul proprio giudizio e in quale invece sulla comparazione delle varie copie a sua disposizione.
Il testo di Aristarco finì con l’imporsi su quello dei suoi predecessori, ma il testo dell’Iliade oggi a nostra disposizione è piuttosto diverso da quello di Aristarco. Su 874 punti in cui egli scelse una particolare lezione, solo 84 tornano nei nostri testi; la vulgata alexandrina corrisponde quindi alla nostra solo per il 10%. Questo dimostra che il testo della vulgata alessandrina non era definitivo; è probabile che nella stessa biblioteca d’Alessandria d’Egitto, dove gli studiosi erano famosi per i loro litigi, ci fossero più versioni dell’Iliade. I motivi per cui il testo alessandrino di Aristarco non riuscì a influenzare fortemente la tradizione sono spiegate dal grecista Raffaele Cantarella: per quanto elaborato a livello critico, il testo aristarcheo era stato realizzato in un ambiente culturalmente elitario di una zona periferica del mondo greco com'era Alessandria; è quindi inevitabile che anche in età ellenistica circolassero più versioni del testo omerico, probabilmente influenzate dalle varie tradizioni orali e rapsodiche.
Secondo l’interpretazione più probabile, i grammatici alessandrini spiegavano le loro scelte testuali in commenti separati, a cui rimandavano i vari segni critici apposti al testo vero e proprio. Questi commenti si definivano col termine ὑπομνήματα (commentarii), nessuno dei quali ci è pervenuto. Da essi derivano però le osservazioni marginali tramandate insieme al testo dei poemi nei codici medievali, gli scolii (σχόλια), che rappresentano per noi dei ricchi repertori di osservazioni al testo, note, lezioni, commenti. Il nucleo fondamentale di questi scolii si formò probabilmente nei primi secoli dell’era cristiana: quattro grammatici (Didimo, Aristonico, Nicanore e Erodiano), vissuti tra il III e il II secolo a.C. dagli studiosi alessandrini, dedicarono ai poemi omerici (soprattutto l’Iliade), dei commenti linguistici e filologici che si rifacevano alle osservazioni critiche dei grammatici alessandrini. Gli studi di questi quattro grammatici vennero poi compendiati da uno scoliasta successivo (forse di epoca bizantina) nell’opera comunemente nota come “Commento dei Quattro”.
Intorno alla metà del II secolo, dopo il lavoro di Alessandria, circolavano quindi il testo alessandrino e residui di altre versioni. Di certo gli alessandrini stabilirono il numero di versi e la suddivisione dei libri.Dal 150 a.C. sparirono le altre versioni testuali e si impose un unico testo dell’Iliade; tutti i papiri ritrovati da quella data in poi corrispondono ai nostri manoscritti medievali: la vulgata medievale è la sintesi di tutto.
Nell’epoca dell’auralità il magma epico cominciò a sedimentarsi nella sua struttura, pur mantenendo una certa fluidità.È probabile che inizialmente ci fossero un grandissimo numero di episodi e sezioni rapsodiche legati al Ciclo Troiano; vari autori, nell’epoca dell’auralità (cioè intorno al 750 a.C. circa) operarono una cernita, scegliendo da questa ingente mole di racconti un numero sempre più esiguo di sezioni, numero che se per Omero fu 24, per altri autori poteva essere 20, o 18, o 26, o anche 50. Quel che è certo è che la versione di Omero si impose sulle altre; benché dopo di lui altri aedi avessero continuato a selezionare continuamente episodi per creare la “loro” Iliade, essi tennero conto che la versione dell’Iliade più in voga era quella di Omero. In sostanza, non tutti gli aedi cantavano la stessa Iliade, e non si arrivò mai ad avere un testo standard per tutti; c’erano una miriade di testi simili tra loro, ma con leggere differenze.
Durante l'auralità, Il poema non ha ancora una struttura definitivamente chiusa.Non possediamo l’originale più antico dell’opera, ma è probabile che già nel VI secolo a.C. ne circolassero degli esemplari.
L’auralità non consentì di stabilire delle edizioni canoniche. Dagli scolii omerici abbiamo notizia di edizioni dei poemi preparate dalle singole città e dette perciò κατὰ πόλεις (kata poleis): Creta, Cipro, Argo e Marsiglia avevano ciascuna la sua versione locale dei poemi di Omero. Le varie edizioni κατὰ πόλεις non erano probabilmente molto discordanti tra di loro. Abbiamo anche notizia di edizioni precedenti all’ellenismo, dette πολυστικός, “con molti versi”; queste edizioni si caratterizzavano per un numero di versi maggiore di sezioni rapsodiche rispetto alla vulgata alessandrina; varie fonti ce ne parlano, ma non ne conosciamo l’origine.
Oltre a queste edizioni approntate dalle diverse città, sappiamo anche dell’esistenza di edizioni κατ'ἄνδρα (kat'andra), cioè preparate da singoli individui per personaggi illustri che desideravano avere delle edizioni proprie. Un esempio celebre è quello di Aristotele, che si fece creare un’edizione dell’Iliade e dell’Odissea per farla leggere ad Alessandro Magno, suo discepolo, intorno alla fine del IV secolo a.C.
In questo stato di cose, i poemi omerici furono inevitabilmente soggetti ad alterazioni e interpolazioni per quasi quattro secoli prima dell’età alessandrina. I rapsodi, recitando il testo trasmesso per via orale, e quindi non fissato stabilmente, vi potevano inserire o sottrarre parti, invertire l’ordine di certi episodi, accorciarne o ampliarne certi altri. Inoltre, poiché l’Iliade e l’Odissea erano la base dell’insegnamento elementare (generalmente i piccoli greci imparavano a leggere esercitandosi sui poemi di Omero) non è improbabile che i maestri semplificassero i poemi affinché fossero di più facile comprensione per i bambini, anche se la critica recente tende a minimizzare la portata di questi interventi scolastici.Probabilmente più estesi furono gli interventi mirati a correggere alcuni particolari scabrosi appartenenti a usanze e credenze non più in accordo con la mentalità più moderna, specialmente per quanto riguarda l’atteggiamento nei confronti delle divinità. In effetti, fin dall’inizio la rappresentazione eccessivamente terrena degli dèi omerici (litigiosi, lussuriosi e sostanzialmente non estranei ai vari vizi degli uomini) turbò i destinatari più attenti (celebre è soprattutto la critica rivolta alle divinità omeriche da Senofane di Colofone). Gli scolii ci attestano un certo numero di interventi, anche piuttosto cospicui (a volte potevano venire soppresse anche decine di versi consecutivi) intesi proprio a smussare questi aspetti non più compresi o condivisi.
Alcuni studiosi ritengono che, col tempo, si sia arrivati a una sorta di testo base attico, una vulgata attica (la parola vulgata viene usata dagli studiosi in riferimento alla Vulgata di San Girolamo, che all’inizio dell’era cristiana analizzò le varie versioni della Bibbia esistenti e le unificò in un testo latino definitivo, che chiamò appunto vulgata – per il volgo, da divulgare).
Gli antichi grammatici alessandrini tra il III e il II secolo a.C. concentrarono il loro lavoro di filologia del testo su Omero, sia perché il materiale era ancora molto confuso, sia perché egli era universalmente riconosciuto come il padre della letteratura greca. Il lavoro degli alessandrini viene in genere indicato col termine emendatio, versione latina del greco διὼρθωσις, che consisteva nell’eliminare le varie interpolazioni e nel ripulire il poema dai vari versi formulari suppletivi, formule varianti che entravano anche tutte insieme. Si arrivò dunque ad un testo definitivo. Il contributo principale fu quello di tre grandi filologi, vissuti tra la metà del terzo secolo e la metà del secondo: Zenodoto di Efeso forse elaborò la numerazione alfabetica dei libri e quasi sicuramente inventò un segno critico, l’obelos, per indicare i versi a suo parere interpolati; Aristofane di Bisanzio, di cui non ci resta nulla, ma pare fosse stato un gran commentatore, inserì il prosodio, i segni critici (come la crux) e gli spiriti; Aristarco di Samotracia operò un'ampia (e oggi considerata eccessiva) atticizzazione, dal momento che egli era convinto che Omero fosse di Atene, e si occupò di scegliere una lezione per ogni vocabolo “dubbio”, curandosi anche di mettere un obelos con le altre lezioni scartate; non è ancora chiaro in quale misura si sia basato sul proprio giudizio e in quale invece sulla comparazione delle varie copie a sua disposizione.
Il testo di Aristarco finì con l’imporsi su quello dei suoi predecessori, ma il testo dell’Iliade oggi a nostra disposizione è piuttosto diverso da quello di Aristarco. Su 874 punti in cui egli scelse una particolare lezione, solo 84 tornano nei nostri testi; la vulgata alexandrina corrisponde quindi alla nostra solo per il 10%. Questo dimostra che il testo della vulgata alessandrina non era definitivo; è probabile che nella stessa biblioteca d’Alessandria d’Egitto, dove gli studiosi erano famosi per i loro litigi, ci fossero più versioni dell’Iliade. I motivi per cui il testo alessandrino di Aristarco non riuscì a influenzare fortemente la tradizione sono spiegate dal grecista Raffaele Cantarella: per quanto elaborato a livello critico, il testo aristarcheo era stato realizzato in un ambiente culturalmente elitario di una zona periferica del mondo greco com'era Alessandria; è quindi inevitabile che anche in età ellenistica circolassero più versioni del testo omerico, probabilmente influenzate dalle varie tradizioni orali e rapsodiche.
Secondo l’interpretazione più probabile, i grammatici alessandrini spiegavano le loro scelte testuali in commenti separati, a cui rimandavano i vari segni critici apposti al testo vero e proprio. Questi commenti si definivano col termine ὑπομνήματα (commentarii), nessuno dei quali ci è pervenuto. Da essi derivano però le osservazioni marginali tramandate insieme al testo dei poemi nei codici medievali, gli scolii (σχόλια), che rappresentano per noi dei ricchi repertori di osservazioni al testo, note, lezioni, commenti. Il nucleo fondamentale di questi scolii si formò probabilmente nei primi secoli dell’era cristiana: quattro grammatici (Didimo, Aristonico, Nicanore e Erodiano), vissuti tra il III e il II secolo a.C. dagli studiosi alessandrini, dedicarono ai poemi omerici (soprattutto l’Iliade), dei commenti linguistici e filologici che si rifacevano alle osservazioni critiche dei grammatici alessandrini. Gli studi di questi quattro grammatici vennero poi compendiati da uno scoliasta successivo (forse di epoca bizantina) nell’opera comunemente nota come “Commento dei Quattro”.
Intorno alla metà del II secolo, dopo il lavoro di Alessandria, circolavano quindi il testo alessandrino e residui di altre versioni. Di certo gli alessandrini stabilirono il numero di versi e la suddivisione dei libri.Dal 150 a.C. sparirono le altre versioni testuali e si impose un unico testo dell’Iliade; tutti i papiri ritrovati da quella data in poi corrispondono ai nostri manoscritti medievali: la vulgata medievale è la sintesi di tutto.
Il Medioevo
Nel Medioevo occidentale non era diffusa la conoscenza del greco, nemmeno tra personaggi come Dante o Petrarca; uno dei pochi che lo conosceva era Boccaccio, che lo imparò a Napoli da Leonzio Pilato. L’Iliade era conosciuta in occidente grazie alla Ilias tradotta in latino di età neroniana.Prima dei lavoro dei grammatici Alessandrini, il materiale di Omero era molto fluido, ma anche dopo di esso altri fattori continuarono a modificare l’Iliade, e per arrivare alla κοινὴ omerica bisogna aspettare il 150 a.C. L’Iliade fu molto più copiata e studiata dell’Odissea.
Nel 1170 Eustazio di Salonicco contribuì in modo significativo a questi studi.
Nel 1453 Costantinopoli fu presa dai turchi; un grandissimo numero di profughi dall’oriente emigrò verso l’occidente, portando con sé una gran mole di manoscritti. Questo accadde fortunatamente in concomitanza con lo sviluppo dell’Umanesimo, tra i punti principali del quale c’era lo studio dei testi antichi.
Nel 1170 Eustazio di Salonicco contribuì in modo significativo a questi studi.
Nel 1453 Costantinopoli fu presa dai turchi; un grandissimo numero di profughi dall’oriente emigrò verso l’occidente, portando con sé una gran mole di manoscritti. Questo accadde fortunatamente in concomitanza con lo sviluppo dell’Umanesimo, tra i punti principali del quale c’era lo studio dei testi antichi.
L'età moderna
Nel 1920 si realizzò che era impossibile fare uno stemma codicum per Omero perché, già nel '20, escludendo i frammenti papiracei, c'erano ben 188 manoscritti, e perché non riusciamo a risalire ad un archetipo di Omero. Spesso i nostri archetipi risalgono al IX secolo d.C., quando a Costantinopoli il patriarca Fozio si preoccupò che tutti i testi scritti in alfabeto greco maiuscolo fossero traslitterati in minuscolo; quelli che non furono traslitterati, sono andati persi. Per Omero tuttavia non esiste un solo archetipo: le translitterazioni avvennero in più luoghi contemporaneamente.
Il nostro più antico manoscritto capostipite completo dell'Iliade è il Marcianus 454a, presente a Venezia; risale al X secolo d.C., quando Bessarione, rettore della Biblioteca di Venezia, lo ricevette dall'oriente da Giovanni Aurispa. I primi manoscritti dell'Odissea sono invece dell'XI secolo d.C.
L'editio princeps dell'Iliade è stata stampata nel 1488 a Firenze da Demetrio Calcondila. Le prime edizioni veneziane, dette aldine dallo stampatore Aldo Manuzio, furono ristampate ben tre volte, nel 1504, 1517, 1521, indice questo senza dubbio del gran successo sul pubblico dei poemi omerici.
Un'edizione critica dell'Iliade verrà stampata solo nel 1920, edita da Monroe e Allen di Oxford – da qui il nome oxoniensis attribuito a quell'edizione. L'Odissea fu stampata nel 1919 da Allen.
Religione e antropologia in Omero
Il nostro più antico manoscritto capostipite completo dell'Iliade è il Marcianus 454a, presente a Venezia; risale al X secolo d.C., quando Bessarione, rettore della Biblioteca di Venezia, lo ricevette dall'oriente da Giovanni Aurispa. I primi manoscritti dell'Odissea sono invece dell'XI secolo d.C.
L'editio princeps dell'Iliade è stata stampata nel 1488 a Firenze da Demetrio Calcondila. Le prime edizioni veneziane, dette aldine dallo stampatore Aldo Manuzio, furono ristampate ben tre volte, nel 1504, 1517, 1521, indice questo senza dubbio del gran successo sul pubblico dei poemi omerici.
Un'edizione critica dell'Iliade verrà stampata solo nel 1920, edita da Monroe e Allen di Oxford – da qui il nome oxoniensis attribuito a quell'edizione. L'Odissea fu stampata nel 1919 da Allen.
Religione e antropologia in Omero
La religione greca era fortemente ancorata al mito e infatti in Omero si dispiega tutta la religione olimpica (carattere panellenico).
Secondo alcuni, la religione omerica ha forti caratteri primitivi e recessivi:
antropomorfismo: gli dei hanno, oltre all'aspetto, anche le passioni in comune con gli uomini
zoomorfismo: alcuni dei greci conservano tracce di antichi dei totemici, zoomorfi, nei loro epiteti ferini.
insufficienza escatologica e mistica: non c'è una cultura dell'aldilà e un contatto diretto con la divinità, fatta eccezione per i culti misterici (ad esempio il dionisismo)
insufficienza etica: manca la punizione divina
Secondo Walter F. Otto, la religione omerica è il modello più avanzato che la mente umana abbia mai concepito, perché scinde l'essere dall'essere stato.
L'uomo omerico è particolaristico, perché è la somma di parti diverse:
σῶμα (sòma): il corpo
ψυχή (psychè): il soffio vitale
θυμός (thymòs): il centro affettivo
φρήν (fren): il centro razionale
νοῦς (nùs): l'intelligenza
L'eroe omerico basa il riconoscimento del proprio valore sulla considerazione che la società ha di lui. Questa affermazione è vera a tal punto che alcuni studiosi, in particolare E. Dodds, definiscono tale società come "società della vergogna". Infatti non è tanto la colpa oppure il peccato, ma la vergogna a sancire il decadimento dell'eccellenza dell'eroe, la perdita della sua condizione di esemplarità. Quindi un eroe diviene modello per la propria società nella misura in cui gli vengono riconosciute azioni eroiche, mentre in caso queste non gli vengano più attribuite, decade da essere modello e sprofonda nella vergogna.
Secondo alcuni, la religione omerica ha forti caratteri primitivi e recessivi:
antropomorfismo: gli dei hanno, oltre all'aspetto, anche le passioni in comune con gli uomini
zoomorfismo: alcuni dei greci conservano tracce di antichi dei totemici, zoomorfi, nei loro epiteti ferini.
insufficienza escatologica e mistica: non c'è una cultura dell'aldilà e un contatto diretto con la divinità, fatta eccezione per i culti misterici (ad esempio il dionisismo)
insufficienza etica: manca la punizione divina
Secondo Walter F. Otto, la religione omerica è il modello più avanzato che la mente umana abbia mai concepito, perché scinde l'essere dall'essere stato.
L'uomo omerico è particolaristico, perché è la somma di parti diverse:
σῶμα (sòma): il corpo
ψυχή (psychè): il soffio vitale
θυμός (thymòs): il centro affettivo
φρήν (fren): il centro razionale
νοῦς (nùs): l'intelligenza
L'eroe omerico basa il riconoscimento del proprio valore sulla considerazione che la società ha di lui. Questa affermazione è vera a tal punto che alcuni studiosi, in particolare E. Dodds, definiscono tale società come "società della vergogna". Infatti non è tanto la colpa oppure il peccato, ma la vergogna a sancire il decadimento dell'eccellenza dell'eroe, la perdita della sua condizione di esemplarità. Quindi un eroe diviene modello per la propria società nella misura in cui gli vengono riconosciute azioni eroiche, mentre in caso queste non gli vengano più attribuite, decade da essere modello e sprofonda nella vergogna.
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