6.9.11

Venezia 68




The Invader
di Nicholas Provost

Un'illusione tra due sogni

Cosa può fare un immigrato clandestino quando sbarca sulle coste di un paese? Scampato alla morte per miracolo, naufragato su una spiaggia e accolto dall’esistere borghese dell’Europa, chi può accogliere una persona senza documenti, senza identità, senza diritti? The Invader, presentato nella sezione Orizzonti della 68. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, nasce come una risposta possibile – o impossibile – a questa domanda. Risposta formulata dal giovane video artista belga Nicolas Provost, oramai ospite fisso della Mostra da due anni il quale – l’anno scorso aveva presentato, sempre nella sezione Orizzonti, il cortometraggio Stardust - con questo film intraprende un’operazione ancor più orientata sulla fiction rispetto ai suoi precedenti lavori, che si caratterizzano per una matrice più fortemente sperimentale.
Il film inizia con l’inquadratura ravvicinata della vagina di una donna che non incontreremo più in tutto il film. Successivamente, un movimento di macchina allarga il campo al resto del corpo, alla spiaggia nudisti, alla riva del mare, ai corpi appena naufragati avvolti da cenci fradici. L’incontro di uno di loro, Amadou, personaggio che ha la fisicità massiccia e scultorea di Issaka Sawadogo che fin da subito si mette in luce per la sua prestanza fisica, con le nudità di questa donna sconosciuta (la modella belga Hannelore Knuts) anticipa il leitmotiv di The Invader: l’idea di Amadou che ogni sforzo per trovare un posto in un nuovo mondo non debba necessariamente passare per il lavoro nero, per la vita clandestina, per la condizione di homeless, intraprendendo un percorso che fende tutte le parabole umane tratteggiate da più di dieci anni di cinema di migrazione, da Amelio a Kechiche, da Faucon a Chibane, da Soldini a Lioret.
Amadou lavora abusivamente come operaio in un cantiere per conto di una losca agenzia di collocamento e abita in uno scantinato invivibile – che rispetta, stavolta, chiaramente il cliché della “casa dell’immigrato medio”. Lì vive anche Siaka, il suo amico, che con lui aveva condiviso lo sbarco. Siaka è malato e giace tutto il giorno su un materasso cencioso, coperto da stracci e giacconi. I capi della banda lo vogliono mandar via ma Amadou, rivendicando il suo sforzo lavorativo in grado di coprire anche l’immobilità di Siaka, riesce a tenerlo lì. Un giorno, dopo esser andato a comprare delle medicine per Siaka, non lo trova più. Nessuno sa dov’è finito, il suo colloquio con Omar, il capo della cricca, non porta a nulla, anzi, rivela ad Amadou un debito di quattromila euro e lo costringe a ritirarsi con la coda fra le gambe. Ma la sua rabbia è irrefrenabile: Amadou imbraccia un piede di porco e devasta la macchina di Omar in un impeto di forza fisica sovrumana. Assiste casualmente poi all’incontro tra Omar e Agnès (Stefania Rocca).
Tirando fuori uno charme e un’astuzia che si potrebbero giudicare quanto meno insoliti per lo stereotipo cinematografico dell’immigrato, Amadou seduce la donna e si ritrova con lei nel loft che solitamente riserva agli “amici di passaggio”. Amadou sottrae una copia delle chiavi, sognando di lasciarsi alle spalle le precedenti notti all’addiaccio di una Bruxelles algida e piovosa. Ma Agnès lo scopre e i suoi tentativi successivi di recuperare il suo rapporto con lei falliscono. Agnès, dopo la parentesi extra-coniugale, si rifugia nuovamente nella sua legittima borghesia. Amadou, spinto dalla disperazione, si macchia di due omicidi, uccidendo Omar e un suo sgherro. Un’ultima scena ci conferma che il suo rapporto con Agnès è tutt’altro che chiuso, anche se si tratta di un rapporto guidato da un sentimento sottile che emerge molto chiaramente dal film, un misto di amore, bisogno, seduzione e servilismo.
A partire dall’idea dello sliding doors dell’ “immigrato medio”, Provost realizza un film totalmente incentrato sulla parabola negativa di Amadou. L’utilizzo della musica all’interno del film ha un temperamento epico, come costruita per sottolineare la forza espressiva e visiva di alcuni momenti dei film, nei quali emerge una vena affascinante dello stile di Provost, costruito su un estremo nitore della messa in scena e su movimenti di macchina ipnotici. Una traiettoria, quella di Amadou, che fa risaltare l’atteggiamento dei vari personaggi che incontra, chiusi nella loro inesorabile gabbia dorata borghese: Agnès, che risponde per le rime allo charme di Amadou con un modo di fare civettuolo ma freddo e distaccato; il suo collaboratore che lo aiuta a liberarsi di Amadou, con il quale si ha a tratti l’impressione che Agnès abbia un rapporto particolarmente intimo, un personaggio decisamente caricaturale, emblema della piccola borghesia impiegatizia di cui Amadou si fa beffe grazie alla sua iniziale astuzia; il gruppo di ragazzi con il quale Amadou si ritrova a trascorrere una serata, chiusi nello stereotipo della notte trasgressiva. Il tono è costantemente drammatico, tutto concentrato sulla parabola di Amadou, allontanando il film da operazioni analoghe come spunto ma opposte come intento, come ad esempio Eden di Costa-Gavras.
The Invader si dà quindi come scopo quello di descrivere il disfacimento di Amadou fino alla scena finale che, analogamente all’inizio, chiude il film com’era iniziato, dando un nome all’anelito borghese del protagonista che all’inizio era soltanto un nome comune. Pesa quindi sull’altro piatto della bilancia l’utilizzo, oramai divenuto pretestuoso, del tema dell’immigrazione. Il film sembra voler raccogliere una serie di spunti provenienti dal senso comune per elaborarne il portato e la sostanza, finendo per trascurare l’immaginario cinematografico legato al tema della migrazione e, soprattutto, le implicazioni reali dell’atto migratorio. Non che si richiedesse al film una qualsivoglia coscienza sociale, ma avanziamo l’ipotesi che un utilizzo così pretestuoso del tema della migrazione depauperi l’apparato ideologico del film, che così si rivela come un apologo surreale e politically uncorrect. Lo testimonia l’oblio che cade, per tutto il film, sul personaggio di Siaka: dato per morto, nessuno ne ritroverà mai il corpo, e Provost non ne fa cenno per tutto il resto del film. Tutta la parte iniziale, ambientata nello scantinato dove tutti dormono, è presto sostituita da un mondo upper class funzionale all’estremo e surreale tentativo di Amadou di integrarsi.
The Invader si dà dunque come un film che sfida l’immaginario cinematografico sul tema della migrazione attraverso un’operazione ideologica sovversiva, disegnando la (im)possibile parabola di un immigrato il cui movimento sociale, infatti, rimane interamente rinchiuso tra due sogni: il sogno di una borghesia sconosciuta che, alla fine, si incarna nel corpo di una donna nota. Una recinzione onirica che non lascia speranza all’apologo di Amadou.

Simone Moraldi 68. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia

1 commento: