19.6.11

Antonia Pozzi






è stata una poetessa italiana.

« Triste orto abbandonato l'anima si cinge di selvagge siepi di amori: morire è questo ricoprirsi di rovinati in noi »
(Antonia Pozzi, da Naufraghi, 19 dicembre 1933)

Figlia di Roberto, importante avvocato milanese e della contessa Lina Cavagna Sangiuliani, nipote di Tommaso Grossi, scrive le prime poesie ancora adolescente. Studia nel liceo classico Manzoni di Milano, dove inizia con il suo professore di latino e greco, Antonio Maria Cervi, una relazione che, a causa dei pesanti ostacoli frapposti dalla famiglia Pozzi, verrà interrotta dal Cervi nel 1933, procurandole la depressione - «e tu sei entrata / nella strada del morire», scrive di sé in quell'anno - che contribuirà a condurla al suicidio.
Nel 1930 si iscrive alla facoltà di filologia dell'Università statale di Milano, frequentando coetanei quali Vittorio Sereni, suo amico fraterno, Enzo Paci, Luciano Anceschi, Remo Cantoni, del quale sembra si innamorasse non ricambiata, le lezioni del germanista Vincenzo Errante e del docente di estetica Antonio Banfi, forse il più aperto e moderno docente universitario italiano del tempo, col quale si laurea nel 1935 discutendo una tesi su Gustave Flaubert.
Con una ragazza che frequentava il gruppo del professor Banfi, ebbe un reciproco turbamento sensuale, e in una lettera a Sereni scrisse: «Mi ha perfino detto che quando mi vede le viene una gran voglia di baciarmi...non mi è mai capitata una faccenda simile e ti assicuro che non ci capisco niente». Antonia in seguito "le dice di essere innamorata di lei, decidono di recitare la parte delle fidanzate: si tengono per mano, si baciano sulla bocca".
Tiene un diario e scrive lettere che manifestano i suoi tanti interessi culturali, coltiva la fotografia, ama le lunghe escursioni in bicicletta, progetta un romanzo storico sulla Lombardia, conosce il tedesco, il francese e l'inglese, viaggia, pur brevemente, oltre che in Italia, in Francia, Austria, Germania e Inghilterra ma il suo luogo prediletto è la settecentesca villa di famiglia, a Pasturo, ai piedi delle Grigne, dove è la sua biblioteca e dove studia, scrive e cerca un sollievo nel contatto con la natura solitaria e severa della montagna. Di questi luoghi si trovano descrizioni, sfondi ed echi espliciti nelle sue poesie; mai invece degli eleganti ambienti milanesi, che pure conosceva bene.
La grande italianista Maria Corti che la conobbe all'università, disse che «il suo spirito faceva pensare a quelle piante di montagna che possono espandersi solo ai margini dei crepacci, sull'orlo degli abissi. Era un'ipersensibile, dalla dolce angoscia creativa, ma insieme una donna dal carattere forte e con una bella intelligenza filosofica; fu forse preda innocente di una paranoica censura paterna su vita e poesie. Senza dubbio fu in crisi con il chiuso ambiente religioso familiare. La terra lombarda amatissima, la natura di piante e fiumi la consolava certo più dei suoi simili».
Avverte certamente il cupo clima politico italiano ed europeo: le leggi razziali del 1938 colpiscono alcuni dei suoi amici più cari; «forse l'età delle parole è finita per sempre», scrive quell'anno a Sereni.
Nel suo biglietto di addio ai genitori scrive di disperazione mortale e si uccide con i barbiturici. La famiglia negherà la circostanza «scandalosa» del suicidio, attribuendo la morte a polmonite; il suo testamento fu però distrutto dal padre, che manipolò anche le sue poesie, scritte su quaderni e allora ancora tutte inedite; la storia d'amore con il Cervi sarà falsamente descritta come una relazione platonica.
È sepolta nel piccolo cimitero di Pasturo: il monumento funebre, un Cristo in bronzo, è opera dello scultore Giannino Castiglioni.

La poesia

Parte dal crepuscolarismo di Sergio Corazzini: «Appoggiami la testa sulla spalla / che ti carezzi con un gesto lento [...] Lascia ch'io sola pianga, se qualcuno / suona, in un canto, qualche nenia triste» per poi viverlo interiorizzato: «vivo della poesia come le vene vivono del sangue», scrive, e infatti cerca di esprimere nelle parole l'autenticità dell'esistenza, non trovando verità nella propria e, come riservata e rigorosa fu la sua breve vita, così le sue parole, secondo la lezione ermetica, «sono asciutte e dure come i sassi» o «vestite di veli bianchi strappati», ridotte al «minimo di peso», come scrisse Montale, e trasferiscono peso e sostanza alle immagini, per liberarne l'animo oppresso ed effondere il sentimento nelle cose trasfigurate in simbolo.
Dall'espressionismo tedesco trae atmosfere desolate e inquietanti:
«le corolle dei dolci fiori insabbiate. Forse nella notte qualche ponte verrà sommerso. Solitudine e pianto -solitudine e pianto dei larici»
oppure
«All'alba pallidi vedemmo le rondini sui fili fradici immote spiare cenni arcani di partenza»
o anche
«Petali viola mi raccoglievi in grembo a sera: quando batté il cancello e fu oscura la via del ritorno»
La crisi di un'epoca s'incontra con la sua tragedia personale e se, come scrisse in una lettera, «la poesia ha questo compito sublime: di prendere tutto il dolore che ci spumeggia e ci rimbalza nell'anima e di placarlo, di trasfigurarlo nella suprema calma dell'arte, così come sfociano i fiumi nella celeste vastità del mare», quel dolore non si placa nella sua poesia ma, come un fiume carsico, ora vi circola sotterraneo e ora emerge e tracima, sommergendo l'espressione poetica nel modo stesso in cui travolse la sua vita.

Antonia Pozzi nel cinema

Antonia Pozzi è stata raccontata nel cine-documentario della regista milanese Marina Spada "Poesia che mi guardi", presentato fuori concorso alla 66ma Mostra del Cinema di Venezia (2009).

1 commento:

  1. la Pozzi era una donna semplice piena di dolore e poesia. una donna sola che cercava la sua via di espressione schiacciata da figure maschili imbalsamate nella tradizione più conservatrice. non so quante e quente volte ho letto le sue poesie, la sua vena poetica è assolutamente genuina autentica penetrante.

    RispondiElimina